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Vini del 2016. I 5 che mi sono "perso" di bere.

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Vini del 2016. I 5 che mi sono “perso” di bere.

Ed è così che nel 2016, come ogni anno d’altronde, mi sono perso la bevuta di alcuni vini. Cinque in particolare.
Ho virgolettato “perso”, perché come spesso capita, il perdere non è necessariamente un atto attribuibile ad un’entità superiore o a semplice sbadataggine. Come ha dimostrato un caro amico, quando ci si dimentica la moglie nel bagno di un autogrill sull’autostrada, sembrerà strano, ma vuol dire che il rapporto non va più nella giusta direzione. Insomma, Freud lo chiamerebbe lapsus.

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Ci si perdono assaggi per sbadataggine, per scelta salvifica o per leggerezza. Foto da web

Quindi spesso il perdere è un gesto premonitore, se non addirittura cautelativo, di difesa. Altre volte invece, si perdono delle cose perché è impossibile arrivarvi, come il ramo delle ciliegie più mature, che sta sempre troppo in alto. Beh, nel caso dei vini del 2016 spesso non è stata una questione di altezza, ma di pienezza. Del portafogli nello specifico. E con l’appena trascorso Capodanno un bilancio va fatto. Che poi di questi tempi è sempre meglio di una bilancia.

Vini del 2016: perso Numero 1 – Cervaro della Sala.

Chiedo venia agli estimatori: purtroppo il vino (bianco) simbolo della dinastia Antinori non fa per me. Mi è capito di assaggiarne anche diverse annate nel 2012. Ma come dire, nada. Tempo fa ne scriveva una tastiera autorevole, mica la mia, definendo il vino “reduce da un fecondo dialogo con le doghe del barrique”. Su questo punto sono d’accordo, per lo meno sul termine reduce, anche se io forse avrei utilizzato sdrumato (dal noto gergo aviatorio).

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Cervaro della Sala, della nota dinastia Antinori. Vini persi del 2016. Foto da web
Vini del 2016: perso Numero 2 – Henri Jayer Richeburg Gran Cru.

Il vino molto spesso supera la sua forma più essenziale, quella di alimento, per diventare qualcosa d’altro. Arte? Poesia? Forma spirituale liquida? Il canto della terra verso il cielo? O anche le bestemmie del contadino per le gelate primaverili (chiedete dalle parti di Chablis)? A questo “altro” in realtà non c’è risposta e quando c’è, frequentemente, è sbagliata. Di fatto la non riproducibilità del territorio, la selezione della parcella e la sua storia rendono unico e irripetibile l’assaggio di alcune bottiglie. Henri Jayer è stato uno di quei produttori . D’altronde la Francia questo concetto lo conosce bene. L’Italia molto (ma molto) meno.

Il suo Richeburg Gran Cru è IL vino.  Faccio ammenda e lo ammetto da subito: non l’ho mai assaggiato. Tra me e il buon Fu Henri Jayer potrei dire che ci sono zero problemi. O meglio, un problemino di zeri. Il vino in questione infatti supera le 10 mila euro a bottiglia. E sì, la bottiglia è da 0,75 litri. Ora, io non sono molto socievole, ma so che ci sono delle persone che mi vogliono bene. Ecco. Tra poco è la Befana!

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Henri Jayer e il suo  Richebourg. Foto da web
Vini del 2016: perso Numero 3 – Chateau Musar Rouge.

La particolare congiuntura la dice di per se lunga sul coraggio che possa richiedere fare vino in un territorio come quello del Libano, a pochi passi dalla Siria. Basterebbe questo a creare fascino ed attrazione verso questo vino, le cui prime viti furono piantate nel 1930 da Gustav Hochar, capostipite di quella famiglia che ancora oggi resiste in una terra ostile. Se a questo si aggiunge la politica di un’agricoltura il meno possibile invasiva e il fatto che il loro vino riesca così particolarmente buono, un po’ di rammarico mi si ripropone. Questo è un assaggio che non avrei voluto perdermi.

Vini del 2016: perso Numero 4 –  Amarone Dal Forno Monte Lodoletta.

Anche qui le dicotomie iniziali sono tra il mio portafogli ed il vino in questione. È anche vero che tra fiere e banchi d’assaggio, l’occasione per “scroccare” quel trentasette euro e cinquanta d’assaggio si trova (ho fatto il calcolo di otto bicchieri per bottiglia e stuccato il prezzo a bottiglia di 300 euro; insomma, i conti del mercato!). E quindi? E quindi, pur rischiando di lambire il sacro con il mio gusto empio, dico che, con tutta probabilità, non sono attratto dall’iper-concentrazione.

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Amarone Dal Forno Monte Lodoletta. foto da web

Nei fortunati assaggi che mi sono capitati negli anni, l’ho sempre trovato più simile ad un distillato ibrido tra Rum e Cognac, che non ad un vino. Trovo difficile anche individuare una portata in accompagnamento. Lo vedrei meglio con un sigaro. Sicuramente un grande vino, ma fuori dalla mia comprensione. Forse per un discorso di pesi: troppo pesante lui, troppo leggere le mie “saccocce”.

Vini del 2016: perso Numero 5 – Pelaverga di Verduno.

(E niente battute sul richiamo hot del nome!) Quasi senza timore di smentita dico che è il vino del Quarto Stato. Il meno esoso della batteria. Dal gusto secco, affilato dalla freschezza speziata. Non è un carro armato, ma un mazzo di fiori. E’ un vino da bere tutti i giorni, eppure è difficile da reperire. Un paio di manciate di produttori in neanche 20 ettari dedicati a questo vino. Il Pelaverga di Verduno gioca su un campo, quello di Roddi d’Alba, la Morra e Verduno stesso, in cui il rapporto volumetrico è insostenibile, adombrato come è dal colosso Barolo.

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Veduta di Verduno, in piena terra di Barolo. Foto da web

Eppure i due sono diametralmente opposti, sia per prezzo che per natura. Purtroppo le occasioni in cui, nell’appena trascorso 2016, sono riuscito con molta difficoltà a trovarlo on line, per un motivo o per un altro mi sono distratto ed è rimasto lì. Che sia forse questo il caso della sindrome di perdita della moglie nel bagno dell’autogrill?

di Raffaele Marini






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