Puccia = Puglia = Lecce. La prima volta che ho passeggiato per i vicoli di Lecce è stato come vedere il cielo per la prima volta. Di un azzurro così intenso da togliere il fiato, profondo ed impalpabile al tempo stesso. Capace di raccontare di un Mediterraneo che diventa Medioriente. Che parla griko in un’enclave linguistica che rivela un legame tenace con l’origine magnogreca o bizantina, su un fazzoletto di terra di 150 chilometri quadrati stretti tra Lecce, Otranto e Gallipoli. Lecce è una scoperta e una sorpresa, capace di svelare ai non credenti la magnificenza di arte, storia e ricchezza del nostro sud prima dell’Unità d’Italia. E lo confesso: ero una non credente. Poi ho incontrato Lecce.
Non stento a credere che il turismo di massa possa averle regalato il nomignolo di “Firenze del Sud”: il suo Barocco esplode ad ogni voltar di sguardo, sulla facciata di ogni palazzo o di ogni chiesa, in ogni piazza illuminata dal Sole, nel vuoto degli archetti o nelle scalette che si arrampicano sui tetti, sfidando ogni legge razionale di gravità ed equilibrio architettonico. Una ricchezza ornamentale opulenta e generosa, che ha saputo raccontare la pietra gentile del Salento e la sua calda tattilità, a ribadire la nobiltà di quella terra e della sua gente. Lecce la sua nobiltà se l’è conquistata e l’ha riaffermata in maniera incontestabile proprio attraverso la sua architettura: nella metà del 1600 Lecce era provincia lontana e negletta del regno spagnolo, vessata e spolpata dalle esazioni del governo d’Aragona, che doveva finanziare le sue guerre infinite nel resto d’Europa.
Ma paradossalmente è proprio in questo momento, come ribellione vitale alla crisi più profonda dell’epoca (e avremmo da impararne oggi!), che Lecce recupera la sua pietra gentile e ne fa lo strumento con cui dar vita allo spartito barocco più fiorente di tutti i tempi, tra le colonne delle balaustre, sopra le terrazze trasformate in giardini pensili, nei vicoli stretti che conducono chissà dove, fino ad aprirsi improvvisamente su una piazza del Duomo che è rivelazione del tempo e dello spirito. E poi l’arte millenaria della cartapesta e dei suoi presepi, interpretata da mani che hanno recuperato un’arte antica e ripopolato il centro storico della città; artigiani del tempo e della materia, in un’arte affabulatoria, povera e nobile al tempo stesso. Un’arte raccontata da Claudio Riso e dai suoi fratelli in un laboratorio artigiano che è luogo di cultura e di memoria, capace di dar vita a figure sacre e popolari “dalla esile anima di ferro, rivestita di paglia ricciolina e tenuta stretta da giri di spago…”.
Lecce è questo e ancora di più. Lecce è gioia e vita. Lecce è cibo. Millenario come la storia della città che si perde nell’infinita memoria del tempo. Tra patate e cozze, fave e cicoria, la ricotta salata e le orecchiette, le cime di rapa e il polpo in pignatta, il cibo del Salento racconta di genti lontane e di epoche diverse dalla nostra, quando il cibo era povero, ma vigoroso per sostenere una giornata lunga trascorsa nei campi. Ancora di più Lecce è taralli e frise, le ciambelle senza buco di origine greca, fatte di farina di grano o di orzo e biscottate al forno, dalla consistenza dura, mangiate ammorbidite con acqua e condite semplicemente con olio, sale, origano e pomodorini freschi.
Ma Lecce è la Puccia, il panino con le olive nere che ha saputo resistere e vincere alle invasioni dei fast – no quality – food (lo sa bene la nota Mc letteralmente costretta ad abbandonare Lecce, in un moto di orgoglio salentino!). L’origine della puccia è misteriosa e lontana nel tempo: il suo nome sembra derivare dal latino buccellatum, il pane dei militari romani. La tradizione la vuole come cibo veloce da mettere in tavola in periodi di vigilia, quando la necessità di pregare obbligava le donne del paese a restare a lungo fuori casa, senza poter preparare altro per mangiare. Inizialmente accompagnata da capperi e acciughe sotto sale, oggi è lo street food leccese per eccellenza. Lo dimostra la varietà di luoghi nel centro storico che sono nati come puccellerie e che hanno reinventato impasto e condimenti.
Il più noto è L’Angolino di Via Matteotti, un vero cantuccio amato dai Leccesi e dai turisti, in cui le pucce vengono farcite al momento e su richiesta, arricchite con le immancabili melanzane, il tonno, cime di rapa, pomodori secchi e pampasciuli. Ok, fuori dal Salento sarebbero i lampascioni, quella sorta di amarognole cipolline dal color viola, ma il termine è stato letteralmente inventato. Il loro nome è pampasciuli e io vi consiglierei di utilizzarlo con enfasi: l’orgoglio salentino è sempre in agguato!
di Tamara Gori
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