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Basta la salute?

Quanno c’è ‘a salute c’è tutto.
Basta ‘a salute e un par de scarpe nove.
Poi girà tutto ‘er monno

Così scriveva Ettore Petrolini nella sua allegoria del bene supremo per l’uomo. Mai come in questi giorni in cui si combatte contro il covid 19 l’idea di salute ha cessato di essere un modo di dire ed è diventata una idea di salvezza. Questo cambio di visione ha fatto nascere in me pensieri nuovi e rafforzato alcuni pensieri antichi.

Per esempio avevo pensato tutto il male possibile di quei politici ossessionati dal voler difendere i nostri confini rendendoli invalicabili agli estranei e oggi mi sono pentito. Avevano ragione. Con una variante. Non mi preoccuperei delle coste, dei porti, dei gommoni, dei caselli d’ingresso al Paese, ma di altro. Se un organismo delle dimensioni di qualche milionesimo  di millimetro oltrepassa il confine di specie imposto dalla natura e riesce a trasferirsi da un pipistrello all’uomo, comincio a credere davvero che quelli siano i confini che vadano protetti per evitare conseguenze come quelle che stiamo vivendo in questi giorni e di cui nessuno riesce a prevedere l’evoluzione. 

Comincio a pensare che l’idea di salute vada in parte riconsiderata come fenomeno planetario. Le nostre comunità non sono più circoscritte a se stesse come quelle del mondo preistorico o del mondo antico, sono ambienti aperti, globali, ai quali si risponde solo in modo globale integrando, all’interno dei confini chiusi, la maggior parte possibile dell’umanità. Non si può invocare il mondo degli indigenti come fonte di contagio, occorre adoperarsi affinché non esistano. Non si può più crescere economicamente senza considerare chi si sia lasciato indietro, facendo molta attenzione che in una dinamica tra più ricchi e meno ricchi non esista nessuno che possa vivere sotto soglia. Per carità cristiana, per dovere civile, per etica della responsabilità, o semplicemente perché conviene a tutti, non importa, purché sia chiaro, da oggi in poi, che tutti sono corresponsabili di quello che succede o che potrebbe succedere. Occorre una più equa distribuzione delle risorse, condividere il destino comune della stessa specie, consolidare e proteggere dagli estranei i confini del genere umano e non come slogan politico, ma come cosa da fare. Il governo del mondo deve dirci come e deve studiarne i tempi. 

Utopia? Forse, ma sono le utopie che hanno cambiato l’antropologia del mondo nell’arco dei millenni e hanno fatto scoprire all’uomo, semplice animale eretto, cose che nessun altro animale è stato in grado di scoprire. La sua evoluzione, per gradi ed in un tempo molto lungo, è arrivata a forme di sapere e di controllo sulla natura non immaginabili fino a pochi anni fa.

L’agricoltura: coltivare e raccontare

Partendo da quando si nutriva raccogliendo quello che cadeva per terra o strappando dagli alberi frutti commestibili, l’uomo si muoveva continuamente per cercare nuova sussistenza e climi migliori dove vivere. Poi ha cominciato, unico animale in grado di farlo, a coltivare ciò di cui si nutriva. Il passaggio all’agricoltura ed all’allevamento va inteso come una acquisizione lenta e graduale di competenze e di saperi. I primi esperimenti che certamente furono fatti devono convincerci che il nostro antenato avesse una certa capacità di pensiero astratto, una seppur piccola attitudine a formulare concetti. Scoprire che dal seme nasce una pianta non è poco per l’epoca, parliamo di circa diecimila anni fa. 

Coltivare. Photo pixabay

Chi coltiva non può andarsene troppo in giro, occorre aspettare, con pazienza che cresca quello che si è seminato, e già questo doveva significare un cambio di abitudini. In più coltivare la terra da soli è molto duro, occorre trovare un aiuto, condividere, spiegare, difendersi e farsi capire. Bisogna decidere di vivere in comunità. Dividere il lavoro da fare, attribuire compiti diversi a ciascuno, organizzare. Bisogna provare, sbagliare, memorizzare, comunicare a qualcun altro quello che si è scoperto avendo avuto successo o no per individuare la soluzione giusta. Eccola la parola magica: scoprire. L’uomo ha cominciato a scoprire e da quel momento in poi non ha mai smesso di farlo. 

Vivere in comunità coltivando cereali ed allevando animali ha messo l’uomo di fronte alle prime epidemie. Nessuno di noi, dopo lo svezzamento, possedeva gli enzimi adatti a digerire il latte, e gli stessi prodotti derivati dai cereali erano completamente sconosciuti nella alimentazione dei nostri antenati. Occorreva adattarsi, la svolta che l’uomo ha dato alla sua vita è stata più veloce dei tempi di adattamento che Charles Darwin ha successivamente illustrato, ci vuole tempo come dimostra il numero di celiaci e di intolleranti al lattosio tuttora fra noi. Ci si ammalava per cause sconosciute, si moriva, e la storia della civiltà diventa anche la storia di come si abbandonava o ci si prendeva cura di un infermo.

L’agricoltura non è un passo nella storia dell’uomo, è una rivoluzione copernicana nel modo di concepire la vita sulla terra è un momento determinante nella evoluzione dell’uomo. È anche una attività che necessita cominciare a comunicare utilizzando sempre più frequentemente i suoni; un contadino, per quanto primitivo, ha in genere le mani occupare e non riesce ad esprimersi a gesti. Deve inventare qualcosa di diverso, articolare suoni in modo costante e preciso, usare l’immaginazione per dare agli stessi un significato riconoscibile. L’uomo sapiens era già anatomicamente in grado di farlo, ma la vita di comunità, la costruzione di centri stabili in cui abitare, nei millenni successivi, lo misero in condizioni di raccontare, aspettative, paure, aspirazioni, deliri, sogni. Raccontare è la funzione più immateriale che esiste, non ci sono fossili come per gli oggetti che ci permettono di ricostruire la loro vita materiale, la scienza procede per congetture indirette, ma nel dubbio una cosa resta: nell’evoluzione della specie l’uomo è il solo animale in grado di coltivare e raccontare. Molti millenni dopo il linguaggio era diventato poesia, teatro, legge, un grande impero copriva una buona parte del mondo conosciuto e il verbo “coltivare”, nella lingua di allora, si diceva “colere” che aveva anche il significato di venerare. Il suo participio passato: “cultus” è l’origine della nostra parola “cultura”. Allora vedete come coltivare e raccontare non sono poi cose così tanto distanti tra loro e nemmeno tanto distanti dalla terra. Vista così, l’agricoltura e un modo di rappresentazione della nostra civiltà e della nostra memoria collettiva.

Scienza e Stato: le grandi invenzioni

Se dovessi descrivere due momenti che hanno determinato punti di svolta nella storia della civiltà direi: la Scienza e lo Stato di diritto. 

Il pensiero scientifico, al di là di quello che la scienza è in grado di produrre come tecnologia applicata alla nostra vita, è una metodologia di approccio al senso ed al significato dei dati, delle informazioni, delle notizie, mentre lo Stato di diritto è anche lui un metodo organizzativo che mette l’uomo al sicuro dall’assolutismo del potere.

Il metodo scientifico prevede che i dati e le relative teorie ricavate da ciascun esperimento siano posti in discussione e verificati da organismi certificati ed indipendenti prima di poter essere dichiarati. La scienza produce e certifica quello che in buona fede considera il punto più avanzato della conoscenza possibile fino a che una nuova evidenza sottoposta alla stessa metodologia non spieghi in modo completo qualche cosa in più. Questa scienza produce poi la tecnologia come applicazione pratica di quei principi.  

Lo stato di diritto per conto suo, quasi coevo, nella sua formulazione attuale, alla nascita della scienza moderna, prevede che i poteri legislativo esecutivo e giudiziario siano indipendenti l’uno dall’altro. Nessuno, nemmeno il monarca, può essere sottratto alla legge. Anche la legge è soggetta a cambiare come ogni teoria per l’uomo, appena le condizioni della sua applicabilità o il contesto sociale cambi fatti salvi i principi fondamentali dello Stato, quelli per intenderci da Italiani, che sono riportati nei primi dodici articoli della nostra Costituzione.

Consentitemi una digressione, poiché parliamo di salute, riporto il primo comma dell’articolo 32 dal quale, guardando dentro alle parole si trova tutta la storia della civiltà che da Ippocrate ai giorni nostri attraversa la Grecia, l’etica cristiana, l’umanesimo, il Rinascimento. 

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Vorrei soffermare la riflessione sul fatto che il diritto dell’individuo è sancito come interesse della collettività. Lo dico solo perché da un po’ di tempo mi tocca spiegare: nei congressi, a gente istruita, la differenza che esiste tra la solidarietà e la carità quasi diventate sinonimi in determinate culture liberiste.

Lo stato di diritto e la scienza sono diventati i punti fondanti di quella che chiamiamo “modernità”. 

In realtà è dalla Firenze dell’Umanesimo, nel Rinascimento che i principi cominciano a diventare prassi, quando al fiorire delle arti si accompagna un forte senso civile che coinvolge la stessa teologia. Anche la ricerca di Dio diventa pratica quotidiana in polemica con l’ascetismo di matrice medioevale. Significativa, in questo senso, è la lettera che Coluccio Salutati, Cancelliere di Firenze scrive a fra Giovanni degli Angeli al quale rimprovera l’ascetismo in contrapposizione con la sua attività politica tesa al benessere collettivo come essenza della vera etica cristiana:

Tu con il ritirarti nella vita del chiostro non porti beneficio a nessuno(…) Tu medita pure per te solo, cerca pure il vero e godi nel trovarlo. Che io invece sia sempre immerso nella azione, teso verso il fine supremo; che ogni azione giovi a me, alla famiglia, ai parenti, e, ciò che è ancor meglio, che io possa essere utile agli amici ed alla patria e possa vivere in modo da giovare all’umana società con l’esempio e con l’opera

Nessuno nella Grecia antica come nel mondo Romano avrebbe mai chiamato fratelli il sole, la luna, il fuoco come ha fatto Francesco d’Assisi. Ha trasportato l’afflato vitale, l’anima, dall’uomo alla natura, proponendo la caritas, un’azione pratica sulla terra invece che un pensiero come catartica, viatico per la salvezza, qualcosa di insolito nella filosofia antica, e che finisce lentamente per diventare politica come nella lettera che ho citato poco sopra. 

L’uomo è il centro, intorno nasce la città moderna, le prime forme di produzione industriale, l’artista e l’artigiano, considerati da Platone sottoprodotti della mente e capaci di usare solo le mani, diventano princìpi intorno al quale coalizzare le menti e le azioni. L’artista trasmette messaggi ai suoi contemporanei come valori sociali. L’artista e l’artigiano sono parte della economia di un territorio, sono l’intelligenza che da vita alle cose del mondo, guardando alle idee come modello, ma usando la materia come strumento, sono il ponte tra le idee e la techne

L’uomo al centro, cambia la prospettiva riguardo alla natura ed alle sue leggi, nascerà la Scienza moderna non senza traumi, basti pensare al processo che Galileo subì non per problemi scientifici, ma perché accusato di un delitto politico. Non poteva essere soggetto a dimostrazione e quindi confutazione il parere di un potente, ma la scienza si sviluppò comunque e divenne il seme dal quale discende quello che la vita pratica ci mette davanti come tecnologia, divenne la forza di un metodo razionale che, se applicato ci farebbe da scudo contro quelle che chiamiamo fake news.

Con la nascita della scienza la fiducia reciproca che era già importante nelle interrelazioni territoriali ed economiche sempre più complesse, è diventata una necessità. Fiducia nell’altro e non solo fede in una entità metafisica.  Oggi alimentare questa fiducia è la nostra responsabilità specie quando esistono segnali che mettono in crisi la competenza e l’autorità della esperienza. Non bisogna commettere l’errore di pensare che il frigorifero o la risonanza magnetica siano sempre esistiti e nemmeno pensare che siano una evoluzione naturale, sono il risultato del fatto che la scienza e le conseguenti ricadute tecnologiche hanno studiato e compreso come funzionino i meccanismi dei processi naturali e abbiano sviluppato dei saperi e delle abilità per migliorare benessere e aspettative. Vi sembrerà strano ma in un’epoca ad alto tasso di innovazione tecnologica la fiducia è diventata uno degli aspetti più importanti intorno a cui ruota tutta la vita civile. Se oggi abbiamo un farmaco in grado di sconfiggere una malattia è solo perché qualcuno ha potuto studiare i meccanismi attraverso i quali questa si sviluppa e mettere a punto delle contromisure efficaci. Questo processo non è una evoluzione naturale, ma il risultato di una cultura che è riuscita a dominare la natura costruendo una civiltà, una cornice di regole e di leggi all’interno della quale manifestare la libertà, che altrimenti sarebbe arbitrio. Solo la scienza e lo stato di diritto garantiscono le regole e i precetti con una cognizione di causa che permette agli uomini di agire liberi. Senza fiducia nelle capacità degli altri saremo ancora cacciatori raccoglitori e non sapiens evoluti. Darwin a conclusione del suo “ L’evoluzione dell’uomo” pone il problema della responsabilità che l’uomo ha, essendosi elevato al di sopra della altre specie, nel gestire l’equilibrio per se stesso e per gli altri. Diamogli credito, in fatto di evoluzione se ne intendeva.

La rivoluzione è un viaggio.

Poter dominare la natura attraverso il controllo della tecnica è un tema molto antico nella cultura occidentale: Dedalo, l’inventore, Icaro suo figlio che sfida il sole, Prometeo che ruba il fuoco, il sapere per il dominio sulla natura segue il sogno dell’uomo che sfida gli dei. Le rivoluzioni industriali sono la conseguenza delle diverse modalità di produzione di energia e dello sviluppo scientifico e tecnologico e hanno favorito sviluppi sociali significativi, lo sviluppo di economie nazionali poco sviluppate o depresse dalle guerre, hanno permesso a classi sociali indigenti di emergere, ma allo stesso tempo, sono state incapaci di distribuire in modo equanime e diffuso tali benefici. Sono nati conflitti sia sociali che politici che hanno sovvertito sistemi e strutture statali su scala planetaria. 

Ora siamo alla quarta rivoluzione. La genetica, la robotica, frontiere inesplorate per la cura di malattie di cui nemmeno si poteva immaginare di trovare una soluzione, di nuovo una svolta, di nuovo opportunità di evoluzione per l’uomo, di nuovo pericoli, di nuovo sfide.

Stando alla letteratura scientifica il fattore critico di questa nuova rivoluzione è il talento, l’immaginazione, la creatività, la capacità di gestire e risolvere i conflitti, con queste prospettive l’umanità si mette di nuovo in viaggio. 

Partire, allora, ma dall’accortezza del nocchiero sapiente. Solo lui ha una meta e sa di doverla raggiungere in sicurezza, sa come assecondare la direzione mutevole dei venti governando le vele, sa che non si può avere sempre il vento in poppa. Era chiaro a Platone che nella Repubblica ricorda che chi governa la nave (cibernauta in greco gubernator in latino) deve avere sapienza e competenza perché il vero timoniere deve preoccuparsi dell’anno, delle stagioni, del cielo, delle stelle, dei venti e di tutto quanto concerne la sua arte, se realmente vuole essere un comandante.

Platone lo sapeva e usa la metafora del viaggio come governo della politica ponendo i suoi contemporanei in guardia da quelli che … sono convinti che, senza sapere né in teoria né in pratica come si guida una nave a prescindere dal volere della ciurma, sia possibile imparare quest’arte nel momento in cui si prende in mano il timone.

Poi c’è anche chi la meta non ce l’ha e qualunque vento spiri cerca di renderlo favorevole. Per fare questo cambia rotta in funzione della massima velocità di avvicinamento al nulla. Persone, per dirla con le parole di Socrate, per le quali la politica si riduce all’arte di manipolare il popolo, populisti diremmo noi, un vero pericolo proprio perché privi di meta.

(naturalmente lo diceva Platone, qualsiasi riferimento è puramente voluto) 

Solo la cultura guida i comportamenti e produce etica, comprendere l’essenza di un parco archeologico, la luce di Caravaggio, la storia dei conflitti tra Greci e Persiani serve a produrre migliori medici, migliori ingegneri, donne e uomini in grado di governare e di scegliere con responsabilità. 

Ci siamo abituati a fruire il mondo esterno attraverso interfacce che mediano e guidano il senso ed il significato delle cose. Televisione, computer, tablet, sono strumenti potenti ma che nascondono il rischio di precostituire uno schema di percezione, di farci compiacere di comportamenti volgari, di distrarci concentrando l’attenzione su cose futili e superficiali, di vivere il dibattito politico come rissa perenne e non come il confine tra i diritti individuali e i bisogni collettivi su cui operare una mediazione razionale risolvendo il conflitto. Vivere senza sforzarsi, utilizzare il minimo indispensabile e quindi fornire risposte prevedibili e accettate da tutti.

In questo modo, i processi emotivi e di conseguenza cognitivi risultano atrofizzati, in questo modo la sensazione, privata della percezione, garantisce elaborazioni focalizzate su risultati standardizzati e precostituiti. 

La dittatura dell’audience…che a dispetto della ragione, s’irrigidisce in una ostinata difesa dei propri errori, per cui accade come nei comizi, nei quali, appena il favore popolare, volubile com’è, ha mutato direzione, quelle stesse persone che li hanno votati si meravigliano che siano stati eletti.

In corsivo una citazione di Seneca che metteva in guardia i suoi contemporanei da pericoli simili un bel po’ di anni fa. 

Anche il ruolo dell’arte risulta indebolito, perché l’opera d’arte, altro non è che un oggetto fatto apposta per perlustrare tutto ciò che nella percezione è indeterminato, l’opera d’arte esibisce rappresentazioni dell’immaginazione che danno da pensare, richiedono sforzo ed applicazione, stimolano invece di intrattenere, sono imprevedibili nei risultati. Il contrario di quello di cui la società ha bisogno. Il mondo dell’audience vuole un solo sapore, non ammette sperimentazioni e pretende tutto sia prevedibile, è concentrato sul livellamento delle risposte, sulla contrazione del sentire e del percepire in un’unica direzione precostituita. Il mondo tende a definire la media e quindi perché dovrebbe accettare una eccellenza? Perché dovrebbe accettare prodotti irripetibili, imprevedibili e inattesi? E se non si accetta il prodotto inatteso tutto il mondo della innovazione è destinato a emigrare ed avvenire altrove.

Siamo un popolo che è stato suddito, che ha combattuto una guerra di liberazione per diventare cittadino e che non può rischiare di finire spettatore televisivo del paese del balocchi.

Abbiamo alle spalle un futuro tutto da costruire, ma per fortuna un passato che è in grado di indicarci una strada, ricordiamoci di quello che la quarta rivoluzione richiede: talento, sapere, studio, creatività, immaginazione. In una parola cultura per produrre comportamenti che favoriscano nuova cultura aperta a tutti. Governare il prossimo viaggio che ci aspetta sarà valorizzare la scienza, lo stato attraverso fiducia e responsabilità per allineare i valori umani al nostro procedere per garantire che la quarta rivoluzione ci porti verso un nuovo Umanesimo, un Rinascimento digitale che ponga l’uomo al centro degli interessi del progresso abbattendo le disuguaglianze e governando il pianeta con un’unica voce.

Le nostre nonne dicevano: chi disprezza compra riferendosi ad un improvviso innamoramento per una persona fino ad allora giudicata antipatica. L’amore è la più grande delle emozioni e, come tale, nasce solo da un momento inatteso che ricompone in un equilibrio più solido ed avanzato le connessioni del sentire. Per innamorarsi accorre prevedere e accettare l’imprevedibile, per un nuovo equilibrio occorre la sconvolgimento di quello precedente. L’allineamento dei gusti, dei sapori, dei colori, delle mode intorno ad uno standard e l’atrofia delle passioni sono prodotti dello stesso mercato. Se il prodotto è uno, il sapore è uno il parere è uno il sistema cognitivo dell’uomo non è più in grado di operare sulla diversità e ferma la sua azione. L’imprevedibilità è la madre di ogni emozione la pluralità è la base attraverso la quale l’immaginazione seleziona i nocchieri migliori per la nave.

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Aldo Di Russo

Laureato in Fisica è entrato nel settore della tecnologia per la produzione di audiovisivi di grandi dimensioni nel settore industriale: Eni, Enel, Rai le più importanti esperienze. Ha prodotto oltre un centinaio di documentari industriali e spettacoli in multivisione in tutto il mondo. Negli ultimi 15 anni si è dedicato alla valorizzazione dei beni culturali, ai musei narranti ed alla creazione di libri interattivi per il settore culturale. Ha vinto molti riconoscimenti. È membro del WAVE LAB dell’Università dell’Egeo, membro di Europeana e membro di Artifactory.

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