La parola suona bene.
Provate a ripetere qualche volta, di seguito, senza smettere, picnic, picnic, picnic.
È ritmo, sembra nulla, ma il ritmo è vita, è forza primigenia, risonanza ancestrale.
Provate, sarà un attimo e vedrete tutto anzi, rivedrete tutto quello che avete vissuto, quello che avete visto, sentito raccontare e anche quello che avete solo immaginato.
Il fatto è che il picnic è un sedimento profondo dell’immaginario che richiama colazioni sull’erba, dejenuer sur l’herbe a dirla elegante con un richiamo agli impressionisti dell’ottocento, pranzi al sacco di gite scolastiche e di escursioni dopolavoristiche, pinete salvifiche da calure estive e complici di amori fugaci, cesti di vimini e ghiacciaie portatili di quando non si chiamavano ancora borse termiche.
Un rito, insomma, che la sintesi dell’inglese, pur avendone rubato l’origine idiomatica al francese, ha reso suono universale, anche se con una zona franca che oggi sopravvive solo come enclave linguistica generazionale.
Refrattaria alle costrizioni linguistiche, sarcastica per indole, disincantata per vocazione, irriverente per storia, Roma non ha trovato un suono migliore per descrivere il rito, ma ha puntato il suo sguardo sull’iconografia del fatto compiuto, ne ha tradotto la liturgia, ne ha colto il particolare del fagotto nel quale si avvolgeva il cibo e ne ha declinato gli avventori come fagottari.
Lapalissiano si direbbe, fatto è che chiunque a Roma si avventurava per qualunque destinazione possibile, pure se fosse come spesso era il prato dietro l’angolo, con del mangiare preparato in casa al seguito, panini o polpette al sugo o lasagne che fossero, era immancabilmente appellato come fagottaro.
Un set, quello del fagottaro, che sulle seicento, sulle millecento o sulle Giulia dei più abbienti – spesso commercianti, oppure impiegati statali che ingannavano la potenziale noia dei pomeriggi a casa arrotondando lo stipendio con un secondo lavoro che li portava a vendere polizze assicurative, riparare televisori o imbiancare appartamenti – prevedeva di stipare generi di conforto quali sedioline e tavoli pieghevoli, coperte da stendere a terra, radioline a transistor con tanto di custodia da viaggio in pelle, palloni per la numerosa prole e italianissime carte da gioco per briscole, scope, scoponi e tresette con cui sfidare occasionali vicini di prato in improvvisati tornei pomeridiani, con in palio avanzi del pranzo che sarebbero bastati per una settimana.
Rispetto a fagottari, picnic è parola esteticamente più musicale ed elegante, evocativa di accessori british style di cui fino all’altro ieri, nella Londra ante pandemia, si poteva avere ampia vetrina nei magazzini Harrod’s, dove cesti di vimini e elegantissimi corredi facevano bella e carissima esposizione, testimoni di una suggestione del picnic giunta fino a giorni nostri con immutata forza attrattiva.
Ma il nostro perimetro non è quello dei panorami inglesi degni del Jeeves di P.G Wodehouse.
Noi ci addentriamo nell’Italia della rincorsa sociale, giovane e già smaliziata, sagace e pronta a tuffarsi nella vita, l’Italia del ventennio che ha attraversato di un solo fiato ricostruzione e boom economico fino ad arrivare al capolinea dell’austerity.
Di quella Italia il rito del picnic è un’icona a tutto tondo, ma non solo nella versione romanesca dei fagottari; nella fortunata coincidenza che incrocia usanze locali, crescita dei consumi e motorizzazione di massa, con moto, scooter e utilitarie che fanno diventare gite e scampagnate di poche ore alla portata di tutti, il picnic trova una sua liturgia come stile di fruizione del tempo libero.
È così, quindi, che intorno al picnic si dispiega un’iconografia di cui la pubblicità del cibo, ma come vedremo non solo, diventa riflesso fedele.
La pubblicità del 1955 non lascia dubbi: le belle domeniche in Vespa sono quelle della gita fuori porta di una giovane coppia, il quadro è perfetto con prato e radiolina e anche se non si vede da mangiare, l’ambientazione è quella e ce lo lascia immaginare. Vale la pena ricordare che la Vespa è su tutte le strade ormai e l’anno seguente negli stabilimenti Piaggio di Pontedera se ne festeggerà il milionesimo esemplare prodotto.
A metà degli anni cinquanta se volete sapere come rendere più simpatica una gita la risposta è semplice: maionese Orco. La scena in questo caso si muove in ambiente che richiama le Dolomiti e, a sottolineare l’esclusività del prodotto, appare di scorcio anche il profilo di una macchina che si annuncia come una fuoriserie, con ogni probabilità americana.
È interessante in questo caso notare il richiamo nel testo alla nota modernissima della maionese in tubetto; effettivamente nel consumo alimentare il tubetto era stato introdotto da poco, nel 1951, merito della Mutti e del Tubettificio La Metallurgica che per primi lo usano come packaging per il concentrato di pomodoro.
Arturo e Zoe, Nancy nella versione originale della striscia cult del fumetto made in U.S.A a cui anche la pop art di Andy Warhol e Roy Lichtenstein renderà più avanti omaggio, nel 1955 dalla copertina de Il Monello ci restituiscono invece la scena non improbabile di un picnic allestito con una serie di scatolette impossibili da aprire per la dimenticanza dell’apriscatole.
Nessun dubbio che più di uno si sarà trovato nella stessa situazione, anche perché è proprio in quegli anni che le scatolette iniziano a registrare successo e gradimento del grande pubblico.
In effetti nel 1958 il Lesso Galbani, rigorosamente in scatola, si propone come il prodotto giusto per una colazione completa in campagna o in casa, e la scena ci fa vedere una famiglia al completo con prato rigorosamente apparecchiato di tovaglia e piatti.
Sempre intorno al 1958 la pubblicità con due ragazzi disegnati appena adolescenti a bordo Vespa con paniere di salumi ci avverte invece che le gite, le scampagnate, le escursioni non saranno perfette senza i prodotti Negroni.
In effetti il salame al picnic è un grande classico, ma ovviamente c’è spazio per ogni prodotto, in scatola, confezionato o fresco che sia.
Gli anni sessanta si aprono con mode e consumi ormai maturi e il tema del picnic travalica l’ambito strettamente alimentare.
Nel 1960 il picnic è infatti a supporto della fonovaligia Teppaz, francese ma distribuita in Italia, accessorio quasi di lusso, con cinghia allungabile che permette di portarla a tracolla, anche in questo caso ideale per una gita indimenticabile.
Una parabola che si ricongiunge nel 1969 con la pubblicità di una curiosa barchetta in resina, la Sportyak, che forse non promette di resistere a onde oceaniche, ma sembra assicurare un fantastico picnic sull’acqua, a prima vista direi molto meglio se ferma.
È tranquillizzante, invece, il picnic che a metà anni sessanta la Locatelli ci propone con il formaggino Mio e dove il richiamo estetico all’english style di cui si parlava prima è netto e deciso: cesto in vimini ben fatto, cinghiette in pelle indispensabili per riporre ordinatamente stoviglie e accessori utilizzando tutto lo spazio possibile e, ovviamente, il formaggino che, rinnovato nel gusto e nel sapore diventa, il formaggino per tutti.
Molto più semplice il cesto dove due belle ragazze intente alla loro colazione sull’erba con l’immancabile radio portatile avevano riposto tutto il necessario, ma che, nel 1964, la copertina de L’Intrepido ci fa vedere improbabilmente arpionato da due corteggiatori in elicottero.
Iconografia ampia quella del picnic, di cui gli esempi riportati sono un semplice cenno, sufficiente però per dare la misura di quanto fosse popolare e, come ogni tratto veramente popolare, assolutamente trasversale rispetto a provenienze e ceti sociali.
Un tratto iconografico che non solo ci riporta nell’Italia dell’ottimismo e della fiducia al futuro, ma che oggi, in un periodo di forzata rarefazione relazionale, ce ne fa avvertire la distanza.
Soprattutto ci fa avvertire la bellezza dello stare insieme, anche su un prato, a mangiare un panino improvvisato o una lasagna cucinata il giorno prima, perché spesso mangiare, a tavola o su un prato, a casa o in un ristorante, è solo il pretesto, l’occasione.
La tavola, ovunque essa sia, è il media.
Il contenuto siamo noi, con le parole, gli sguardi e i sorrisi che riserviamo a chi ci sta vicino.
Torneremo a farlo, perché siamo fatti per questo.
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