Prima delle major, prima delle visioni cinematografiche di John Ford e della camminata di John Wayne, William Frederick Cody, esploratore e soldato per l’Unione durante la guerra di secessione, grande cacciatore di bisonti da cui l’acquisizione del nome che lo renderà noto, eroe americano, attore e impresario, con i venti anni di tournée europea del suo spettacolo Buffalo Bill’s Wild West Show lascia un segno indelebile nella costruzione iconografica del mito della frontiera e dell’epopea western.
Due volte in Italia, nel 1890 Buffalo Bill è ricevuto da Papa Leone XIII insieme al suo variopinto seguito e si rende protagonista di una sfida simil barlettiana che lo vede perdente con i butteri maremmani, è fonte d’ispirazione per Emilio Salgari – che scrive di lui su L’Arena in occasione della tappa veronese dello Show nell’aprile 1906 e che, a seguire, scriverà la trilogia del ciclo western, tema che aveva già affrontato sul finire del secolo precedente –, è protagonista delle strisce a fumetti che negli anni trenta l’editore Nerbini dedica all’Eroe della Prateria e ispira quello che forse si può considerare il primo western all’italiana, il dimenticabile Buffalo Bill a Roma, uscito nel 1949 per la regia di Giuseppe Accatino.
Insomma, per gli Stati Uniti d’America che nel mito della frontiera trovano una ragione fondante della propria identità nazionale e della filosofia del Manifest Destiny, per una nazione in perenne disequilibrio tra la vergogna del massacro di Sand Creek, la vulgata della guerra di secessione mai finita, e la liturgia della fulgida sconfitta del generale Custer e del suo 7° Cavalleria a Little Bighorn, Buffalo Bill è la pietra miliare di una narrazione che già in quegli anni alimenta mito e fantasia e che incontrerà il cinema sin dai suoi albori, nei poco più di dieci minuti de La grande rapina al treno del 1903.
Dai romanzi di Salgari alla Fanciulla del West di Puccini sino alle strisce Nerbini, in Italia il western diventa presto un linguaggio di contaminazione culturale, ma è nei primi anni che seguono la fine della Seconda Guerra Mondiale che la contaminazione si trasforma in fascinazione, complici soprattutto tre fattori: le pellicole americane, che alimentano le proiezioni nelle numerosissime sale cinematografiche italiane – per lunghi anni saremo il Paese europeo con il più alto rapporto cinema/popolazione – e che contribuiscono in maniera decisiva a promuovere il modello americano di vita e di consumo; l’uscita in edicola per l’ideazione di Giovanni Luigi Bonelli e il tratto di Aurelio Galleppini, nel 1948, di Tex, il più longevo fumetto italiano che ha il merito di aver sdoganato nel linguaggio corrente parole come hombre, vamonos, diablo, amigos e gringo, illudendo così svariate generazioni di saper parlare lo spagnolo; lo straordinario proliferare di armi giocattolo prodotte, ad esempio, dalla Mondial, dalla Edison o dalla MB, che senza alcun complesso di colpa politicamente corretto facevano giocare tutti i bambini ai cow boys.
L’universo a fumetti italiano sarà particolarmente creativo e reattivo rispetto alle sollecitazioni del racconto della frontiera e, oltre a Tex, personaggi come Capitan Miki del 1951 e Il Grande Blek del 1954 firmati dai disegnatori del Gruppo Essegiesse (Pietro Sartori, Dario Guzzon, Giovanni Sinchetto) per l’Editoriale Dardo, Il Piccolo Ranger del 1958 disegnato da Francesco Gamba per Edizioni Audace, Zagor del 1968, ideato dallo stesso Sergio Bonelli sotto lo pseudonimo Guido Nolitta e disegnato da Gallieno Ferri, Il Comandante Mark del 1966 disegnato sempre dal Gruppo Essegiesse, entreranno in profondità nell’immaginario di bambini, adolescenti e relative famiglie.
Un immaginario che trova una saldatura fortissima con le versioni cinematografiche del mito di cui Hollywood, con un firmamento di registi come John Ford, Fred Zinneman o Sam Peckimpah e interpreti come John Wayne, Henry Fonda, Lee Van Cliff, Kirk Douglas o Charles Bronson, sarà per decenni depositaria assoluta.
Almeno fino a quando sulla scena non compare un giovane regista romano che ha attraversato gli anni cinquanta scrivendo sceneggiature e facendo l’aiuto regista nel mood creativo della Hollywood sul Tevere, che esordisce alla regia nel 1961 con Il colosso di Rodi e che nel 1964, proprio mentre il western americano languiva, il peplum si esauriva e la commedia all’italiana viveva la sua stagione d’oro, presenta Per un pugno di dollari, afferma il poncho di Clint Eastwood al posto della tunica dei film romano mitologici, inaugura la sua trilogia western che concluderà simmetricamente nell’arco di tre anni e cambia le regole del gioco.
Non del western; Sergio Leone cambia le regole del cinema.
Il western italiano nasce così da una sovversione di regole e stili, gli americani lo dileggiano e iniziano a chiamarlo spaghetti-western, contribuendo loro stessi ad alimentare una contro narrazione che oltre a Sergio Leone vedrà come protagonisti assoluti Duccio Tessari con il suo Ringo, Sergio Corbucci con il suo Django che, decenni dopo, ispirerà Quentin Tarantino, Ferdinando di Leo che diventerà poi il maestro del poliziottesco degli anni settanta, e Bruno Colizzi che nella sua trilogia western collauda la coppia Bud Spencer e Terence Hill, coppia che nel 1970 troverà una nuova versione di successo con Lo chiamavano Trinità e il suo sequel per la regia di Enzo Barboni, un successo che trasforma la rudezza in commedia e che sostanzialmente conclude la grande e veloce stagione del western italiano.
E così, mentre italiani di tutte le età giocano ai cow boys e consumano fumetti e film western, l’Italia esce dal dopoguerra, affronta la ricostruzione, s’infila nel boom economico, intravede le avvisaglie della crisi, si risveglia con l’autunno caldo e torna in bicicletta con l’austerity.
Il mercato, però, è sempre più ampio, i consumi crescono, i prodotti hanno bisogno di farsi conoscere e la pubblicità – il nuovo mestiere di cui parla Marcello Mastroianni quasi in chiusura de La Dolce Vita –intercetta i linguaggi che possono influenzare e trainare prodotti e consumi.
Il West è una narrazione completa, un linguaggio non solo un paesaggio, e ai pubblicitari la cosa non sfugge.
Montana è un prodotto tutto italiano con un naming di straordinaria capacità evocativa per il suo richiamo diretto a un confine americano per la stragrande maggioranza degli italiani così lontano da poter essere solo immaginato, un brand che l’ACSAL, Azienda Carni Società Anonima Lissonese, deposita nel 1953 e lancia sul mercato nel 1954.
Nei primi anni di vita la pubblicità della carne Montana è sostanzialmente senza grandi afflati creativi e guarda al prodotto senza tanti orpelli, ma quelli sono gli anni in cui nella neonata RAI irrompe Carosello che, dal 1957, sovvertirà tutte le regole della pubblicità.
Paul Campani, genio italiano della comunicazione, eclettico e non ordinario, nel 1964 firma per Montana il primo Carosello – non chiamateli mai spot, perché sarebbe offensivo e perché sono proprio due linguaggi diversi – dove in uno scenario di canyon dove si riflette l’immaginario western collettivo assimilato da film e fumetti, ritrae la marcia di una mandria di scatolette con le corna.
Paul Campani assegna così al tratto di Montana un posizionamento originale, che l’anno successivo sarà affinato e reso definitivo dallo Studio Gamma di Roberto e Gino Gavioli, con la carne Montana che quando sulle tavole degli italiani è portata da Gringo accompagnato dalle note quasi rap di Ringo, canzone lato B del 45 giri La Festa di Adriano Celentano, riadattate con i testi pubblicitari elaborati da Alfredo Danti.
Gringo è una sintesi iconica formidabile: echeggia il fresco successo cinematografico del Ringo di Duccio Tessari a cui ha dato volto Giuliano Gemma, prende in prestito gli stilemi adottati da Clint Eastwood nella trilogia di Sergio Leone, con poncho, sigaro e cappellone in bella evidenza, di Sergio Leone riprende la firma estetica dei primi piani, l’interprete Roberto Tobini di Clint ha quanto meno l’altezza, cita in maniera parodistica Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinneman e il tutto viene miscelato in una straordinaria composizione di immagini, animazione e musica.
Di fatto Ringo dalle case degli italiani non è più uscito e la carne Montana è ancora sul mercato.
Altro esempio interessante di trasposizione del mito della frontiera americana lo troviamo con la Negroni, che per la pubblicità dei suoi salumi si affida allo Sceriffo della Valle d’Argento, protagonista in Carosello dal 1963 al 1976.
Anche in questo caso gli stilemi sono quelli classici, con uno stile meno innovativo del linguaggio che sembra ricalcare apertamente il clichè cinematografico dei western americani anni cinquanta, fatto salvo per l’affidamento forse eccessivo alla buona sorte, visto che la storielle si concludono sempre con il ringraziamento fideistico dello Sceriffo e del suo vice alla buona stella che li ha aiutati e protetti.
Un plot che distanzia molto lo Sceriffo dallo stile deciso di Ringo, ma che serve a introdurre il jingle di straordinaria efficacia mnemonica che attraverserà indenne gli anni e che recita…le stelle sono tante, milioni di milioni, la stella di Negroni…vuol dire qualità!
Innovativo, invece, è il merchandising con cui Negroni accompagna la pubblicità del prodotto, un kit con stella in bachelite e un 45 giri che racconta la storia dello sceriffo: un’anticipazione di quella che diventerà presto la pratica commerciale diffusa e irrinunciabile di continuare a dare visibilità e creare familiarità con il brand attraverso oggetti di uso quotidiano.
Nel 1970, Lo chiamavano Trinità di Enzo Barboni riporta sullo schermo western la coppia Terence Hill e Bud Spencer, già protagonista della trilogia di Giuseppe Colizzi, ma cambia il registro della narrazione che si avvicina molto a toni parodistici e, in anni in cui forse in Italia si aveva voglia di evadere un po’ da un quotidiano stringente, riscuote un successo straordinario di pubblico che esula il genere e che, forse proprio per questa sua portata disruptive rispetto ai canoni precedenti, lo posiziona a pieno titolo nella storia del cinema italiano.
Una storia alla quale anche Quentin Tarantino rende omaggio inserendo la colonna sonora del film nel finale del suo Django Unchained.
Ebbene, nell’immaginario nazionale la scena di Terence Hill/Trinità, pistolero infallibile quanto la sua pigrizia, che divora una padella di fagioli in uno scalcinato saloon ha un posto tutto suo, tanto da aver dato origine a svariate ricette di Fagioli alla Trinità.
Scena gastronomicamente impegnativa, si narra che Terence Hill l’abbia girata solo una volta dopo aver osservato un rigoroso digiuno di 24 ore.
Nel mito non tutte le domande devono trovare risposta ma, da queste pagine, questa domanda a Terence Hill proveremo a farla.
I primi anni settanta sono per l’Italia un momento di risveglio repentino, a volte brutale, e la vedranno costretta a confrontarsi con le rivendicazioni sindacali, a fronteggiare l’ingresso potente e prepotente in politica dei giovani come soggetto organizzato, e a misurarsi con l’Austerity che sembra voler far tornare il mondo indietro.
In questo panorama i nostri cow boys da mangiare entrano nelle case degli italiani, hanno una portata tranquillizzante e rassicurante, e familiarizzano da subito con il grande pubblico che da Ringo, dallo Sceriffo della Valle d’Argento e da Trinità, si fa prendere per mano e portare verso la terra dei sogni dove tutto è possibile.
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