Ficu… un frutto! No un formaggio!!!
Siamo davvero certi che i vegetariani possano mangiare formaggi? A rigor di logica direi proprio di no. O almeno non tutti. Perché ad andare a vedere come si fa un formaggio, si scopre che il miracolo caseario non avverrebbe se non ci fosse l’intervento di un enzima, detto caglio, solitamente estratto dallo stomaco di vitelli o agnelli lattanti. Insomma, la componente animale, sia da un punto di vista nutrizionale che etico, è di tutto riguardo. Ma poi… Ad andare a vedere ancora meglio, si scopre che alcuni formaggi, più rari a dire il vero, sono realizzati con l’ausilio di caglio vegetale e che, soprattutto al Sud, questo è l’unico caglio ammesso per la preparazione di formaggi tipici e di antichissima tradizione. Questo tipo di caglio è generalmente estratto dal lattice che fuoriesce dal taglio di alcune piante come il cardo o il carciofo selvatico. Ma la bellezza di alcuni viaggi sta anche nella sorpresa di scoprire che esistono magnifici formaggi caprini realizzati grazie al caglio di fico!
Il Ficu, formaggio siciliano prodotto con latte di capra autoctona Girgentana, è una produzione secolare realizzata proprio con questa pianta. Ma andiamo per ordine. Innanzitutto la Capra Girgentana: è una razza autoctona tutelata con Presidio Slow Food e caratterizzata dalle bellissime corna a spirale o a turacciolo, opera d’arte indiscussa di una natura impressionista. Il suo nome deriva da Girgenti, l’antica Agrigento, e segna il forte legame territoriale con queste terre aride di Sicilia. La sua origine però è da ricercare molto più lontano, nel tempo e nello spazio; il pelo e le corna infatti ricordano alcune capre asiatiche del Tibet, viventi allo stato selvatico nella zona dell’Himalaya, o le Mark-hor nella zona dell’Afghanistan settentrionale e nel Belucistan. Furono gli Arabi ad importarle in Sicilia intorno all’anno 800, quando approdarono a Marsala per espandersi in tutta la Sicilia sud-occidentale. La diffusione degli allevamenti di capra girgentana, così come di altri animali da latte e da carne come gli ovini, rispondeva ad una tradizione casearia siciliana che si dice sia tra le più antiche in Europa, se non la più antica.
Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la mungitura della Girgentana avveniva porta a porta, portando latte fresco a chi ne faceva richiesta. Una pratica che si è scontrata con la diffusione industriale di allevamenti intensivi e di razze selezionate per massimizzare la produzione di latte. La competizione era assolutamente impari: le scansioni della natura, cadenzate da ritmi armonici di fecondità e da pascoli allo stato brado, non hanno retto il confronto con le moderne macchine da latte, allevate a mangimi di mais e soia, generalmente importati e ogm. In questa lotta tra Davide e Golia, le unità di Capra Girgentana sono passate dalle 30 mila degli anni Cinquanta, a poco più di 500 dei giorni nostri. Un grande merito per il recupero e la salvaguardia di allevamenti di capra Girgentana, va riconosciuto a Giacomo Gatì, casaro e allevatore lui stesso in quel di Campobello di Licata, nell’Agrigentino.
Nel suo piccolissimo caseificio produce formaggi di qualità eccelsa, utilizzando latte di Girgentana proveniente anche da altri 4 piccoli allevatori, custodi eroici di razze autoctone e di tradizioni millenarie; eroici, perché il coraggio si evidenzia laddove ci si ostina a non veder scomparire un patrimonio culturale, agricolo e caseario immenso, ripetuto nei gesti secolari di mani sapienti. L’allevamento di Giacomo Gatì è rigorosamente allo stato brado, perché i formaggi sono inscindibilmente frutto di un territorio, del suo clima, della sua biodiversità: se la flora è ricca e diversificata, gli aromi e i sentori di quella terra, brucata dalle capre, rimarranno nel loro latte, anche grazie alla liposolubilità delle molecole odorifere, trasmesse così ai formaggi. Sarà per questo che il Ficu dell’Azienda Montalbo di Giacomo Gatì racconta tutta la Sicilia più autentica.
Spalmato sul pane, meglio se quello Nero di Castelvetrano con farina di grano antico di Tumminia, questo formaggio morbido e cremoso dona sensazioni erbacee e acidule, di piante spontanee e di fico. Non solo per il coagulante dei rametti di fico in cui viene immerso il latte, ma anche per le foglie in cui viene avvolto durante la stagionatura, che va dalle 2 alle 4 settimane. Ancora un merito ascritto alla passione di Giacomo Gatì: la riscoperta di un antico metodo di conservazione dei formaggi di cui si era persa memoria, la “tuma ammucciata”, vale a dire il formaggio nascosto. Si tratta di una tecnica che deve l’origine alla pratica di nascondere i formaggi dai ladri, ma anche dagli occhi dei proprietari dei latifondi dove pascolavano le greggi e sulle quali si pagavano tasse, spesso in prodotti caseari. Le tome venivano riposte nelle fessure dei muri tirati a gesso e pietra, un sistema che permetteva però anche una buona traspirazione dei formaggi freschi, che potevano così maturare lentamente.
Il recupero di Giacomo passa attraverso l’immersione delle tome, dopo alcuni giorni, nel gesso liquido, per garantirgli la giusta traspirazione e la maturazione adeguata nei lunghi mesi delle caldi estati siciliane. Una Sicilia che passa attraverso questi gesti, che racconta della sua storia e del suo immenso patrimonio dall’alto valore culturale e gastronomico, di cui ancora non c’è adeguata coscienza e diffusione.
di Tamara Gori
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