Il 3 gennaio, Fulvia Colombo annuncia la più grande rivoluzione del costume italiano quando dai pochi schermi accesi informa che la RAI Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive.
Il 29 luglio John Ronald Reuel Tolkien ancora non può sapere che il Signore degli Anelli sarà tradotto in 77 lingue e con le sue, ad oggi, oltre 150 milioni di copie diventerà uno dei libri più venduti al mondo.
Il 31 luglio, prima nella storia, piantata da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, la bandiera italiana è sulla cima del K2 grazie alla pionieristica spedizione guidata da Ardito Desio.
Il 26 ottobre, in un clima di commozione corale che la frammentazione politica, sociale e culturale di oggi fa sembrare distante anni luce, Trieste torna italiana.
Il 10 dicembre accade l’irreparabile.
Per la regia di Steno, uno degli sguardi più acuti della nostra cultura del novecento, esce in sala Un americano a Roma, l’immaginario italiano ne sarà segnato per sempre e la romanità un po’ pavida, caciarona e cialtrona, trova il volto, le mosse, e la voce di Nando Mericoni, in arte Santi Bailor, al secolo Alberto Sordi.
Nando è un ragazzotto romano che, come tanti in quegli anni, mentre sogna di fare lo spettacolo sottoponendosi ai crudelissimi riti di passaggio dell’avanspettacolo dove effettivamente il pubblico era abituato a battere, ribattere, piccare e ripiccare con il malcapitato attore, si culla in un altro sogno, quello americano, alimentato dalle centinaia di titoli che Hollywood riversa nei cinema italiani e che, in un clima di appeasement, costruiscono l’immagine edulcorata dell’America dove tutto è possibile.
L’immagine che Nando Mericoni recepisce dell’America – che poi sono gli Stati Uniti, ma l’indifferenziazione tra il limite nazionale e quello continentale è ancora oggi il vero colpo gobbo della propaganda a stelle e strisce, riuscita in un brand positioning senza eguali nella storia della comunicazione – si dipana tra archetipi e stereotipi e proprio in questa originale sintesi trova i motivi del suo successo.
Nando Mericoni con cinturone da cow boy omaggia il grande western di John Ford, guida una Harley-Davidson WLA 750, vista al seguito delle truppe americane che solo pochi anni prima hanno risalito l’Italia, ma che è anche un forte richiamo all’hard-boiled dell’insuperabile Dashiel Hammet, calza un cappellino alla Joe Di Maggio, più che un uomo, un’icona, che il 14 maggio aveva sposato Marlyn Monroe, e infine veste con t-shirt bianca, blue jeans e stivaletti come solo Marlon Brando ne Il selvaggio (1953) si può permettere, anche lui di moto munito anche se è una Triumph 6T Thunderbird.
In effetti la t-shirt bianca passerà alla storia anche per il ribelle James Dean, ma Gioventù bruciata è del 1955 e Nando Mericoni ancora non lo può aver visto, e per Steve McQueen, altro grande futuro interprete di t-shirt, ma che in quegli anni fa ancora la comparsa.
Sognare, però, è un mestiere per duri e puri e Nando Mericoni ha una vita complicata; oltre agli sberleffi del pubblico di avanspettacolo e alle angherie degli impresari, anche dentro casa non gode di buona stampa, con un padre postino quasi a fine carriera preoccupato per il futuro di un figlio che vede perdersi dietro sogni destinati al fallimento, anche se ovviamente cuore di mamma è sempre dalla sua parte, lo asseconda, sopporta le ansie con il sorriso, gli porge la mano e soprattutto non manca di lasciargli pronta la cena.
Nando Mericoni con il mangiare ha un problema; i suoi idoli non mangiano come si mangia nella sua casa di Trastevere e così, in un falso passo da trionfo della volontà, tornato a casa a tarda sera dopo l’ultimo spettacolo dell’ennesimo western law and order e aver sfidato il gatto mammone e il metronotte reduce di guerra, Alberto Sordi consegna alla storia del cinema la scena e le battute indimenticabili che, a buon ragione, valgono tutto il film, a dire il vero e nonostante il successo planetario, fragile in diversi punti.
Ma veniamo a noi.
In cucina, la tavola di casa Mericoni è un’icona pop italiana a tutto tondo, con la sua tovaglia fiorata a quadroni, il suo fiasco di rosso e il piatto coperto per mantenere dignità e un po’ di calore ai maccaroni.
Certo, la sveglia sul comodino del padre ci dice che è l’una e cinque di notte e chissà come potevano essere veramente quegli spaghetti, ma non è questo il punto; Nando si avvicina circospetto alla tavola, scoperchia il piatto e quando li vede, sdegnato emette la sentenza…maccaroni? Questa è roba da carrettieri, io non magno maccaroni, io so’ ame(a)ricano, sono…vino rosso? Io non bevo vino rosso…
Il perché è semplice…gli americani, secondo Nando, non magnano maccaroni, non bevono vino rosso…gli americani magnano ma(r)malada…questa è roba da americani…yogurt, mosta(r)da..ecco perché gli americani vincono gli apache, combattono gli indiani…gli americani non bevono vino rosso, bevono latte, apposta nun s’embriacano…
Battute che ci dicono quanto l’immaginario di Nando abbia fatto una fuga in avanti, ma è così dicendo e facendo che l’armamentario alimentare di questo immaginario si materializza sulla tavola e spodesta il piatto di maccaroni, sdegnosamente messo da una parte, verso il quale Nando, guardandolo mentre inizia a spalmare marmellata, con tanto di alzata di mano minacciosa e grifagna proferisce la nota minaccia…maccarone…ti distruggo sai, maccarone…
Il dialogo è aperto, tra Nando e maccarone si instaura una relazione che supera il genere ed entra nella storia del cinema, al pari della lettera dei fratelli Caponi, in Totò, Peppino e la malafemmina.
…che mi guardi con quella faccia…mi sembri un verme, dice Nando mentre alla galletta con marmellata, aggiunge yogurt, mostarda e infine latte…questa è roba che magnano l’americani…vedi?…roba sana, sostanziosa…e così Nando morde e, per dirla scomodando Leopardi, gli appare il vero.
Nando mastica a fatica, sputa l’immangiabile boccone nel piatto, annuncia il rito liberatorio con un epico…ammazza che zozzeria…si rimette il piatto davanti e sentenzia…maccarone, tu m’hai provocato e io te distruggo adesso…io me te magno…
Nessuno poteva immaginare che questa precisa scena, con un Alberto Sordi immaginario americano di Trastevere che inforchetta un presa enorme di spaghetti, avrebbe fermato il tempo e sarebbe diventata un’immagine riprodotta milioni di volte, in tutte le latitudini e in ogni modo possibile.
Non proprio e non del tutto.
Anzi, il rapporto degli americani con quel monumento gastronomico italiano che sono gli spaghetti, indifferentemente chiamati maccheroni, ha una storia lunga e articolata la cui fonte ancora oggi più attendibile e documentata ci viene dalla penna di un grande eretico della cultura italiana, Giuseppe Prezzolini.
Protagonista delle avanguardie letterarie del novecento, Prezzolini sperimenta vari terreni; dapprima vicino all’antirazionalismo, si riconosce poi nel nazionalismo, pratica un cattolicesimo modernista, si avvicina al sindacalismo socialista, è volontario nella Grande Guerra, aderisce all’idealismo crociano per poi arrivare a maturare un conservatorismo disincantato, ammira Mussolini ma non ne approva i metodi e nel 1926 lascia l’Italia prima per Parigi, per poi trasferirsi nel 1929 a New York, dove sarà direttore della Casa Italiana della Columbia University oltre che a esservi docente.
Ebbene, Prezzolini dell’America scrive molto e scrive anche un divertimento letterario che, nel 1954 esce in prima edizione negli Stati Uniti per Abelard Schuman: Maccheroni & C.
Nello stesso anno in cui Nando Mericoni immortala nell’immaginario il rapporto non risolto tra americani e maccaroni, Prezzolini ne fornisce invece un riferimento storico prezioso e irrinunciabile, che in Italia arriverà nel 1957 edito da Longanesi.
Prezzolini mette subito in chiaro una cosa, così da non ingenerare equivoci di sorta nel lettore: gli spaghetti hanno diritto d’appartenere alla civiltà italica come e più di Dante e ben argomenta in questa sua non del tutto inaspettata venatura pop, che gli spaghetti sono penetrati in moltissime case americane dove il nome di Dante non viene mai pronunziato. Inoltre l’opera di Dante è il prodotto di un singolo genio, mentre gli spaghetti sono l’espressione del genio collettivo del popolo italiano, il quale ne ha fatto un piatto nazionale, ma non mostra di aver invece adottato le idee politiche e il contegno del grande poeta.
E così gli spaghetti diventano una speciale unità di misura, perché dal modo con il quale mangi gli spaghetti un italiano ti conoscerà per straniero, o per uno straniero che ha imparato, e una persona acuta scoprirà anche qualche tratto del tuo carattere…vedendo il modo col quale tratterai gli spaghetti che il cameriere o l’ospite ti ha portato.
Sugli spaghetti, la disputa tra Italia e resto del mondo si gioca in effetti su alcuni grandi temi: quanto cuocerli, come mangiarli e come condirli.
Una disputa che, nell’articolato rapporto con il mangiare americano è a tutto tondo e che trova spazio, all’epoca ma ancora oggi, in articoli e editoriali che forniscono a Prezzolini una fonte preziosa e vastissima di informazioni, così come gliela forniscono ricettari di varia origine e natura, persino quelli destinati alle Forze Armate.
Prezzolini tributa a Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, il merito di aver introdotto per primo le macchine per paste alimentari negli Stati Uniti, ma nei grandi numeri l’industria americana di paste alimentari nascerà negli anni della Prima Guerra Mondiale.
Di maccheroni, invece, Prezzolini trova prima citazione in un libro di cucina del 1792 dove…maccheroni o vermicelli si consiglia di cuocerli nell’acqua per tre ore e poi di ricuocerli nel brodo per dieci minuti e mescolarli infine con pane in una zuppiera. Questa roba vien chiamata un “piatto italiano”, chiosa il nostro. (Richard Briggs, The new art of cookery, Philadelfia).
Nel 1923, nella colonna dei consigli di cucina del N.Y Herald Tribune, Prezzolini legge con una certa impressione un tal Lowes Miles che sostiene…di tutte le cento e quarantacinque maniere che si vantan nel preparare le varie forme di paste… ce n’è una che i forestieri non si decidon ad adottare. Ed è la maniera più popolare in America. Noi le bolliamo, le mettiamo in una terrina, le ricopriamo con formaggio, che viene anche sparso nelle paste stesse e finalmente vengon messe in forno fin a che prendan un colore bruno. Talvolta le lasciam cuocere così a lungo che i tubi si spezzano, tanto fragili son diventati.
Dieci anni dopo, nel 1933, una voce dissonante è quella di Mary Martenen, redattrice culinaria del Chicago Evening American che ammonisce…non cuoceteli troppo. Non confondete il tenero con il mencio. Gli spaghetti cotti troppo diventan mollicci e sformati, perdendo quel che hanno di appetitoso.
Di contro The U.S Navy Cook Book del 1932 prescriveva 30 minuti di cottura, ridotti a 20 nell’edizione del 1944. Dal manuale dell’U.S Army del 1896, scopriamo invece che per il condimento si doveva far bollire in acqua due cipolle con i maccheroni, cui aggiungere senape e formaggio. Tra senape e mostarda, qui l’immaginario del nostro Nando Mericoni potrebbe trovare una sua qualche soddisfazione.
Per la cottura, altro aneddoto ci viene da You can cook if you can read, edito nel 1946 e scritto da Muriel e Cortland Fitzsimmons, che avvisa che in certe famiglie italiane per vedere se gli spaghetti erano cotti…la mamma ne pigliava su una forchetta contro la parete sopra l’acquaio. Se gli spaghetti restavan attaccati alla parete, eran considerati di giusta cottura.
Sul fronte delle ricette, Prezzolini riporta di un concorso per la migliore ricetta di spaghetti bandito nel 1931; vi partecipano 32.024 massaie che ne presentano 129.008 e, tra queste, il primo premio è assegnato al Lemon Surprise Pudding of Spaghetti, di cui non sappiamo nulla oltre e che ci lascia con il dubbio rispetto è interessante alla possibile somiglianza con i napoletanissimi Spavettielle cu l’uoglio e ‘o limone
Dal suo privilegiato punto di osservazione newyorkese, Prezzolini non guarda solo alla storia, ma tocca anche con mano il futuro che ci attende; a New York si ha sempre meno voglia di cucinare in casa, le donne sono sempre più impegnate nel lavoro e nei suoi ritmi, e in soccorso loro e di tutta la famiglia ecco arrivare l’innovazione tecnica del congelamento dei cibi, cotti o freschi che siano.
Prezzolini, a buon ragione, intuisce che proprio questa tecnica è destinata a compiere una grande rivoluzione nelle abitudini domestiche ed anche in quelle dei locali pubblici e annota che si vendono ora sui mercati americani delle lasagne ed altre paste già cotte, condite e congelate, che vengon conservate in un recipiente di alluminio, leggerissimo a forma di vassoio; tirate fuori dal freezer (un refrigerante a bassissime temperature)basta riscaldarle pochi minuti in un forno, o talora in una pentola bollente (poiché sono in un pacco impermeabile e apribile come una conchiglia) per presentarle in tavola. Esse conservano il gusto e la fermezza del cibo preparato in cucina.
Il libro di Prezzolini, ricchissimo di aneddoti e citazioni, dimostra come il rapporto tra l’America e gli spaghetti, sia ben più articolato della riduzione scenica di Nando Mericoni, basti pensare che macaroni compare per la prima volta come termine di traduzione nel dizionario italiano inglese di Giovanni Florio (1553-1625) e che sì, è vero, dall’altra parte dell’Oceano hanno impiegato un po’ ad averne dimestichezza, a capire come mangiarli con la forchetta – ma in fondo la nostra iconografia ottocentesca ci restituisce ampie immagini di maccheroni mangiati con le mani -, con cosa condirli e con cosa abbinarli, ma è anche vero che la cucina è fatta di contaminazioni e, forse, questa battaglia sul maccherone l’abbiamo vinta noi.
E forse l’abbiamo vinta anche grazie a personaggi straordinari come Giovanni Buitoni, che si trasferisce a New York nel 1939 per farne la sua residenza, e che nell’ottobre del 1939 apre a Times Square il Buitoni Spaghetti Bar, dove un nastro di cuoio trasportava porzioni di spaghetti al sugo direttamente al tavolo e dove, pagando 25 centesimi, il cliente poteva accedere al ristorante attraverso un cancello girevole e mangiare a volontà.
Un’avventura americana che vedrà la Buitoni aprire un impianto per la produzione di sughi pronti, industrializzando un brevetto di scatola di cottura registrato già nel 1930.
Di Giovanni e della Buitoni, protagonista per lunghi decenni dell’alimentare italiano e del suo immaginario – vi dicono nulla le figurine dei Quattro Moschettieri e dell’introvabile n.20, quella del feroce Saladino? – parleremo in un articolo dedicato.
Adesso, però, Il Cibo Immaginario approfitta del mese di agosto per mettere un po’ in ordine le storie da raccontare.
Sono tante, è bene che lo sappiate da subito.
Tenetevi pronti!
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