Articolo di Mario Mazzetti di Pietralata
Il packaging, mangiare fuori casa, produrre in casa vino, formaggio o il pane sono aspetti peculiari del mutare dei tempi.
Il tempo corre veloce così che in questi ultimi cento anni abbiamo assistito ad una rivoluzione culturale che ancora è in atto e non sappiamo prevedere quando e come andrà a finire.
Mi diverte ricordare che negli anni ‘4o, durante la guerra il macellaio usava i fogli del giornale per incartare la carne. Da tempo ormai siamo arrivati al packaging.
Packaging è una dei tanti termini mutuati dalla lingua inglese che vuol dire, come sicuramente tutti sanno, imballaggio o impacchettamento anche inteso come modalità di presentazione del prodotto per vendere.
E’ una scienza, una disciplina che viene insegnata nelle università di scienze gastronomiche, è un problema che può condizionare il costo degli alimenti, la loro conservazione, il loro trasporto. È anche una fonte non trascurabile di aggravio delle discariche comunali e quindi anche un serio problema politico.
Scrivono magistralmente Anceschi e Becchetti che “il packaging è divenuto il mezzo che rende comunicabili le misteriose gerarchie attraverso le quali il prodotto organizza la propria presenza e la offre al consumatore, un mezzo che, in altri termini, costringe la fluidità esperenziale dell’alimento nei caratteri costanti dell’oggetto-merce. Ci sono poi un’infinità di prodotti che senza l’imballaggio non esisterebbero affatto.”
Alberto Capatti ha illustrato con la competenza e l’illuminata maestria che gli sono proprie, il variare dei luoghi dove popolani e borghesi – ma anche i ricchi perché no hanno scelto sempre più frequentemente di mangiare e bere fuori casa. Basta scorrere le parole mescita, bettola, osteria, taverna, fiaschetteria, buffet, grillroom, birreria, panineria, snackbar, ristorante per fare un percorso storico di straordinario interesse. Oggi si mangia un piatto di spaghetti in tutti i bar sia al dente che precotti da una industria di marca.
La sera le strade danno accesso a tante pizzerie piuttosto che ai portoni di casa e la lista dei menu di questi locali è sempre la stessa a Roma, Canicattì, Hannover, Malindi, Hanoi. Sono molti i lavoratori di ogni tipo che non tornano a casa per il pranzo non solo a causa della lontananza del posto di lavoro, ma anche a causa della solitudine e della rinuncia a fare la spesa a rassettare la cucina a cercare il parcheggio sotto casa. Si mangia fuori casa anche la sera per soddisfare l’esigenza della socializzazione che prevale sulla
soddisfazione del bisogno di nutrirsi bene e fa passare in seconda linea sapere cosa si mette sotto i denti.
Xenia Caruso ha condotto un censimento dei ristoranti etnici a Roma e ne ha contati 349 dei quali 10 di tradizione ebraica, 40 per la cucina latino-americana, 240 dell’area asiatica, 18 del subcontinente indiano, 7 dell’area africana, 34 dei paesi arabi.
Che dire poi del vino, frutto delle conoscenze e della tecnica, segno concreto di civiltà che fin dall’antica Grecia, ma ancora oggi separa in modo esemplare il piano della natura da quello della cultura (Paolo Scarpi). Oggi il vino ha acquistato una dimensione commerciale che ha snaturato in parte la sua funzione. Non c’è paese al mondo che non coltivi la vite e non riesca a piazzare il proprio prodotto in ogni enoteca. Basta percorrere in macchina le strade delle Langhe o dell’Alto Adige per rendersi conto che pianura e colline sono state integralmente coperte da una moquette di vigneti. Nono so immaginare quale sia lo spettacolo quando in autunno le foglie saranno cadute e lo sguardo avrà davanti a sé solo i paletti che reggono la vite.
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