Avete presente il concetto di decrescita felice?
La teoria di origine transalpina animata da un fronte culturale trasversale che va da Serge
Latouche ad Alan de Benoist e che da una ventina di anni idealizza la disaggregazione e il
ridimensionamento delle attuali strutture economico-sociali?
Teoria vagheggiata anche da un ex movimento di protesta e oggi di governo che la decrescita felice l’ha più che altro subita nel consenso? Bene, se la conoscete dimenticatela, se invece non la conoscete abbiate la certezza che non è qui che ve ne parleremo.
Noi qui parliamo di crescita felice.
Parliamo di un’Italia che aveva poco e voleva molto, parliamo di un’Italia che voleva crescere e migliorarsi, di un’Italia che dei suoi vizi è riuscita a fare virtù, di un’Italia che ha risparmiato per far studiare i figli, che ha fatto le rate per il frigorifero, il televisore e la millecento, rate che ha pagato quasi sempre e che quando non ci riusciva se ne vergognava.
Per raccontare questa Italia entriamo nella pancia degli italiani, e mai definizione è più esatta di questa, perché la raccontiamo attraverso il cibo, il modo e i modi di mangiare e
l’immaginario pop che tutto questo ha creato e influenzato.
Il Cibo Immaginario, dopo essere stata una mostra di successo esposta a Roma, Parma e Budapest, diventa una rubrica e racconta per immagini e riflessioni la storia dell’Italia felicemente cresciuta, l’Italia che non si è rassegnata allora e che caparbiamente non si rassegna neanche adesso.
Vediamola da vicino quest’Italia del 1950; un chilo di pane costava 100 lire, un litro di latte 75,un chilo di pasta 130, un chilo di riso 120, un chilo di carne 800; con 20 lire, si prendeva il tram, con 30 una tazzina di caffè al bar e con 100 lire, in città, si poteva andare al cinema; una bicicletta costava circa 20.000 lire, un muratore guadagnava circa 15.000 lire al mese, un operaio tra le 20 e le 30.000 mila ed un impiegato tra le 35 e le 45.000 lire al mese.
Abituati ormai all’euro, il prezzo espresso in lire a molti forse non restituirà la misura di
quanto fosse povera quell’Italia. Per chiarirlo ci aiuta l’Indagine parlamentare sulla miseria in Italia: nel 1951 le famiglie misere sono 1.357.000 per un totale di circa 6.200.000 persone, alle quali si devono aggiungere altre 1.345.000 famiglie, appena limitrofe per condizione e definite disagiate, con ulteriori 5.900.000 persone. Nel 1951, quindi, oltre 12 milioni di italiani e 2.702.000 di famiglie sono in condizioni di povertà e disagio.
Mangiare in quest’Italia non è solo un bisogno, ma spesso e per lunghi anni a venire sarà
anche un sogno.
È l’Italia di Ladri di biciclette, de Lo sceicco bianco e di Bellissima, film diventati patrimonio
della cultura generale, ma anche del quasi sconosciuto Maccheroni, un corto struggente
realizzato nel 1957 dallo straordinario documentarista Raffaele Andreassi, recentemente
restaurato dalla Cineteca di Bologna di cui consiglio a tutti il quarto d’ora di visione su
YouTube.
Proprio come queste immagini del Cynar, amaro-aperitivo che complice uno slogan – con
buona pace dei puristi della comunicazione, pay off in quegli anni non si usava – d’incredibile longevità e successo, è entrato nell’immaginario di chi c’era e di chi non c’era, per dirla rubando una nota felice a Ivano Fossati e alla sua banda che suona il rock.
Una bella storia italiana quella che vede il Cynar della storica Pezziol spa – azienda fondata nel 1840, rilevata nel 1935 dai fratelli Dalle Molle e con in pancia altri brand che hanno fatto la storia del costume alimentare italiano come Vov e Biancosarti – arrivare sul mercato proprio nel 1950 e attraversare con successo gli anni della ricostruzione e del boom economico.
Un successo che già nel 1955 vede la Doxa rilevare il Cynar al terzo posto tra gli aperitivi più amati dagli italiani, fatto non episodico visto che nel 1962, con un product placement ancora non sfruttato, Dino Risi ne Il Sorpasso fa ordinare a Gassman e Trintignat due Cynar lisci.
Di questo successo raccontiamo due immagini. La prima pubblicità è del 1951 ed è straordinaria; slogan e grafica echeggiano l’uno con l’altra, il logorio della vita moderna esce fuori con prepotenza, il tributo stilistico al tratto futurista della velocità e dell’aeropittura è evidente, la città è vista dall’alto, la dinamica è incessante, la
tecnica si accompagna alla crescita in verticale degli edifici e dall’idea tutta italiana del
futurismo il movimento incessante occhieggia al sogno americano con navi, aerei e motori,
insegne dalle mille luci, ritmo, ma soprattutto lui, il testimonial.
Non ha un nome il testimonial, ha molto di più, ha uno stile: viso pieno, florido, in salute,
pettinatura impeccabile, denti perfetti, sorriso smagliante di chi ce l’ha fatta, domina il mondo che lo circonda con il bicchiere in mano.
L’immedesimazione è perfetta, bevi Cynar, puoi essere come lui, ti guardi intorno, non c’è
nessuno come lui, ma tu ce la puoi fare, bevi Cynar e portati avanti.
La seconda pubblicità è del 1955, gli stilemi grafici echeggiano sempre il sogno americano: il Palazzo di vetro, sede delle Nazioni Unite, è stato inaugurato nel 1951 ed eccolo lì, richiamato dall’edificio a sinistra, mentre l’Empire State Building si staglia sullo sfondo di una New York che sembra vista dalla prospettiva di downtown e il cielo è tagliato da un aereo a reazione, il cui primo volo di linea è solo del 1952.
Modernità assoluta, previsione del futuro, immagini e linguaggio che si sovrappongono
indistinte segnano il successo della pubblicità e del prodotto Cynar, che travalica indenne il
passaggio dalla carta stampata alla televisione, diventandone protagonista assoluto con il
Carosello interpretato da Ernesto Calindri, un monumento del teatro italiano, che contro il
logorio della vita moderna sorseggia Cynar seduto a un tavolino circondato da un traffico
moderno e invadente.
Una storia italiana, suggestioni e ottimismo.
La crescita felice che vogliamo raccontare inizia da qui.
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