Articolo di Letizia Apolloni
La merenda è morta! Viva la merenda! Quella refezione che alcuni vogliono fare tra il desinare e la cena (Fanfani, Vocabolario della Lingua Italiana) è un’usanza sparita, finita, svanita nel nulla, per farla non c’è tempo, non c’è ragione, non c’è necessità.
Gli orari e la consistenza dei pasti sono un lontano ricordo, tutti corrono, tutti a causa del lavoro costretti a diete strampalate o a piccoli pasti di cibi sfiziosi reperibili ovunque, nel bar all’angolo o nel vicino supermercato. Dove, peraltro, rimangono le uniche tracce pallide e distorte dell’antica merenda, le malfamate merendine che i bambini dell’asilo adescati dalla pubblicità adorano portare a scuola, luccicanti e traboccanti di zucchero per interrompere la mattina il digiuno avendo sostituito “l’indimenticabile cestino” con lo “zainetto”.
Del resto la merenda la cui etimologia viene dal latino merere, bisognava meritarsela, almeno così recitano i vecchi testi di economia domestica, riferendosi alla merenda di “fanciulli” e “operai”. Ma ora chi si merita che? Le categorie di merito e demerito sono piuttosto in disuso e comunque confuse.
A Roma c’è sempre stata la tradizione della merenda, all’aperto e fuori porta, almeno quando il tempo lo consente. Storiche le merende, organizzate in epoca di Controriforma, in occasione della pia tradizione della visita alle Sette Chiese, istituita da San Filippo Neri. Data la distanza dalle chiese i fedeli devoti in effetti se la meritavano davvero una buona merenda!
Così la processione istituita come contraltare al Carnevale, foriero di turbamenti, eccessi e disordini, sostava in una tappa intermedia a Villa Mattei (l’attuale Villa Celimontana) e lietamente costringeva tutti a sedersi sull’erba per consumare la merenda apprestata dai provvidi Padri Filippini, sia pur continuando a cantare le penitenziali strofe: vanità di vanità, ogni cosa è vanità, tutto il mondo è ciò che ha, tutto il mondo è ciò che ha, tutto il mondo è vanità.
Questa refezione richiedeva un’organizzazione non indifferente, dato che si trattava di sfamare centinaia e centinaia di pellegrini camminatori. Nell’archivio filippino si ritrovano le precise istruzioni per i preparativi che dovevano effettuarsi nella settimana sessuagesima.
Così il lunedì precedente” ci si doveva preoccupare d’accaparrare salami assaggiandoli e richiedendone le dovute garanzie…” “poi il martedì preparare tutto ciò che si sarebbe dovuto trasportare, quindi, il mercoledì accaparrare le uova del pollarolo nel numero che si prevede necessario lasciando la caparra di uno scudo per tremila uova”.
La lieta visita delle Sette Chiese, concepita quasi come un carnevale cristiano da San Filippo, proprio a causa della pausa merenda, divenne oggetto di scherno. Un gentiluomo riferì con ironia ad un amico “Monte Cavallo” che i padri Filippini erano andati alle Sette Chiese, con sette somari carichi di torte.
Ma al processo di santificazione di Filippo Neri il teste che aveva riferito questa maldicenza specificò che “et non era vero”. In verità la merenda era volutamente sobria: pane, salame, cacio e mele. Il bere moderato. Sempre nelle istruzioni, nel capitolo avvertimenti diversi si prescrive di “adacquare il vino più o meno (se però non si è adacquato sulle botte prima di portarlo) secondo che il sole è coperto o scoperto l’esperienza mostra, che a quelli, che hanno camminato alle Chiese pare sempre troppo gagliardo, e non rinunciano a metterci acqua, e così appunto occorse l’anno 1639”. E conclude con questa saggia riflessione. “E’ ben vero, che sarà meglio, che il vino sia poco che troppo adacquato, per non far mormorare la gente”.
La tradizionale devozione, comprensiva della spettacolare merenda, durò a lungo a Roma, anche se gli aspetti goderecci della pia gita prevalsero su quelli penitenziali. Alla fine la gente, maligna come il gentiluomo che irrideva la processione (gentiluomo che tra l’altro morì ammazzato), mormorava non tanto del vino annacquato quanto del fatto ormai la Visita alle Sette Chiese si era trasformata nella “Visita alle Sette Osterie!”.
In tempi più recenti, ma non più vicinissimi mi riferisco ai tempi dell’infanzia nelle nostre case borghesi, interrompere il digiuno era un’abitudine, specie per i bambini perché la cena avveniva a tarda ora e così si bloccava quel languore improvviso con squisite, indimenticabili merende. Pane e marmellata, pane e miele, pane burro e sale (anche nella versione pane burro e zucchero), pane vino e zucchero, pane e salame, pane e prosciutto (nella versione cotto e crudo) e l’indimenticabile pane burro e alici! Insomma, la varietà era vastissima, i sapori infiniti. Era, quello, l’unico pasto che i bambini potevano scegliere, sbizzarrendosi a loro gusto. E mangiarlo insieme agli amici e ai compagni di scuola, in lunghi pomeriggi di interminabili giochi.
Ora c’è la televisione, i bambini fanno sport e danza hanno tante occupazioni che
non gli resta il tempo di fare merenda con i compagni. Del resto, forse meglio
così, dal momento che quando si parla di “compagni di merenda si allude a
ben altre fosche realtà. Ma questa è tutt’altra brutta storia. Con le processioni
e con i lieti ritrovi infantili non ha nulla a che fare. O meglio, per restare
in tema, c’entra come i cavoli a merenda!
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