Molti autori hanno scritto del valore della cucina e della tavola come luogo di incontro e di scambio. Già nel lontano1825 Jean-Anthelme Brillat-Savarin (che ha dato il nome a uno specifico dolce), brillante politico e gastronomo francese, riconobbe proprio nell’atto di cucinare una prima forma di organizzazione della vita civile degli esseri umani e, più recentemente, Claude Lévi-Strauss sottolineò il nesso profondo esistente fra il “crudo della natura”e il “cotto della cultura”.
L’atto del cucinare comporta il piacere di imparare, di fare propri piccoli segreti rubati agli anziani, a volte anche il gusto di modificarli , di trasformarli. Così il cibo è linguaggio della propria identità, come afferma Massimo Montanari in un suo libro, e la tavola dove i commensali si raccolgono diventa luogo di scambio culturale perché è scambio di idee, di materie prime e di tecniche.
Il mar Mediterraneo, al contrario degli altri mari, non separa, ma unisce. Questo nostro mare è stato sempre motivo di contatto fra i popoli, è stato un luogo fisico di congiunzione, un crocevia antichissimo di scambi culturali e di tradizioni, ma anche di tradizioni culinarie, tanto che l’alimentazione, pur nelle diversità, trova nella “mediterraneità” un aspetto unificante. L’imperversare impietoso del tempo ha, però,trovato le sue mitigazioni nel costante fluire degli stili di vita esaltati dall’incontro delle diverse culture. Modi, abitudini, educazioni hanno finito per fondersi in un vero e proprio stilema di vita tanto da esprimere una vera e propria significazione esistenziale. Una filosofia di vita caratterizzata da sole, mare, luce fino a connotarsi nella rappresentazione di se stessa come stile mediterraneo,splendido risultato dei suoi mai finiti scambi dal sapore delle cose lontane e mai dimenticate. Una costruita comune identità realizzata nei sapori, negli odori, negli umori comuni di terre apparentemente lontane ma fisicamente vicine nell’abbraccio della storia.
C’è un unico posto deputato alla verifica delle disponibilità umane, laddove il gesto è espressione autentica del sentimento che si traduce nel piacere dell’ospitalità come valore ancora oggi non superato: la tavola!
Solo apparentemente mi sono distratta in una dissertazione che vuole sovrapporre il sentimento al sapore ed al piacere.
Utilizzerò una parola per riportare il comune senso della condivisione: loukoumades!
Questo è il nome greco nella rievocazione delle identità culinarie. Nel sud d’Italia si chiamano zeppole, in Turchia lokma: la ricetta è la stessa anche se in ogni paese si è caratterizzata in modo diverso per essere , una volta finita, presentata e gustata nella sua aristocratica semplicità.
Per 5/6 persone:
Sciogliere il lievito di birra in acqua tiepida.
In una terrina mettete la farina, unite il sale e, a poco a poco, il lievito di birra sciolto lavorando con le mani e aggiungendo, poco alla volta, acqua tiepida fino a ottenere un impasto di media consistenza ( ne’ troppo duro ne’ troppo morbido)che però deve essere lavorato finchè non fa delle bolle d’aria. Coprire la terrina con un canovaccio e lasciarla lievitare. Quando la pasta è quasi raddoppiata di volume , scaldare abbondante olio in padella e quando è caldissimo, versare tanti cucchiaini dell’impasto così da ottenere delle palline. Quando sono ben dorate si tolgono dall’olio e si dispongono sulla carta paglia per farle ben scolare, poi si mettono in un piatto di portata.
Nel frattempo si prepara lo sciroppo:
In una padella si mette 2 cucchiai di miele con lo zucchero e l’acqua e si lascia cuocere per 10 min ca.
Si versa lo sciroppo sulle loukoumades e poi si spolverano con la cannella. Negli ultimi tempi si usa mettere sopra le frittelle calde delle palle di gelato di crema o di cioccolato.
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