Legumi di Tuscia, un legame indissolubile tra una terra ed un prodotto che la rende famosa. Chissà chi ha chiamato questa terra Tuscia. Chi l’ha vissuta, popolata, coltivata. Prima non ci si fermava in un posto così, tanto per. Quando si sceglieva un luogo, lo si faceva in virtù di considerazioni ben precise: doveva essere fertile oppure vicino a grandi vie di comunicazione, mare e fiumi navigabili. La Tuscia era tutte e due le cose insieme: terra fertilissima di origine vulcanica, con terreni molto sciolti e drenanti, facili da dissodare, poveri di calcare e ricchissimi di potassio; lambita dal mare e attraversata da fiumi più o meno febbrili, che si gettavano nel fluente Tevere fino a Roma. Quando i Romani arrivarono in queste terre le trovarono già ricche, sviluppate, fertili e popolate. Gli Etruri – o Etruschi- vi abitavano da tempi lontani; ma già dal II secolo d.C. si diffuse per loro il nome di Tusci. E all’inizio dell’anno 300, l’imperatore Diocleziano, nel suo riordinamento amministrativo, l’aveva ufficialmente chiamata Tuscia.
Così è rimasta anche nel Medioevo, definitivamente sancita come Tuscia romana, antesignana di quello che diventerà il futuro Stato della Chiesa. Le tradizioni, le colture e le culture di questa terra antica come il tempo, si innescano in questi rivoli di storia trascorsa sui piedi della gente che l’ha calpestata. Il Pranzo del Purgatorio si origina lì. Si celebra a Gradoli, sulle rive del lago di Bolsena, il Mercoledì delle Ceneri almeno dal 1600: nasce come pranzo di magro, celebrato in un giorno di penitenza dalla Fratellanza del Purgatorio per almeno duemila commensali, un tempo i più poveri della comunità. Durante l’anno la Fratellanza fa questua di prodotti agricoli da utilizzare proprio per il Pranzo del Purgatorio e, data la vocazione ai legumi di queste terre vulcaniche, il Fagiolo del Purgatorio la fa da padrone, accompagnato dall’Olio EVO di Gradoli e dal Coregone del Lago di Bolsena.
Il Fagiolo del Purgatorio è un ecotipo assolutamente peculiare di queste terre vulcaniche, che ne influenzano e ne tipicizzano le caratteristiche agronomiche, esattamente come succede per tutti gli altri legumi della Tuscia; è piccolo, tondo, dalla buccia bianca e sottile, che lo rende più digeribile e non necessita di ammollo prima della cottura. È una pianta difficile quella del Fagiolo del Purgatorio: bassa, dai baccelli piccoli che rendono impossibile la meccanizzazione della loro coltivazione, vengono coltivati generalmente con sistema biologico – grazie alle caratteristiche orogenetiche del terreno – e raccolti a mano; il correato, è ancora lo strumento antico utilizzato per battere i baccelli a terra e liberare i legumi.
Oggi, nonostante i secoli che ha collezionato sulle spalle, il fagiolo del Purgatorio di Gradoli è una specie a rischio di erosione genetica e per questo la sua rinascita è passata attraverso la tutela ad esso garantita dal Consorzio delle Comunità Montana Alta Tuscia Laziale, al Comune di Gradoli e alla Cantina Oleificio Sociale di Gradoli. Il ruolo dei produttori, come l’Azienda Agricola Georgea Marini, però, qui più che in altre coltivazioni, richiede una passione intensa e un’abnegazione senza pari, proprio per le caratteristiche del legume.
Poco più a nord la tradizione dei legumi da terra vulcanica marca ancora il territorio. A San Lorenzo Nuovo è il Fagiolo Secondo o Fagiolo delle Stoppie a farla da padrone. È un ecotipo locale di colore giallo, dalla facilità di cottura e dal sapore dolce e importante. Il suo nome deriva probabilmente dal periodo di coltivazione, in antichità la terza decade di Giugno, dopo la mietitura del grano; per questo era il secondo prodotto dei campi. Per lo stesso motivo era detto delle stoppie, ciò che restava del frumento proprio dopo la messe. Oggi, visti i tempi più lunghi di raccolta del grano con l’introduzione delle mietitrebbie, anche la coltivazione del fagiolo Secondo si è posticipata, se non addirittura ridotta drasticamente.
La sua coltivazione, inoltre, al contrario del fagiolo del Purgatorio, ha risentito in maniera considerevole dell’introduzione di azotati e concimi chimici, che hanno modificato il terreno che lo nutriva, danneggiandone la coltivazione. Solo in tempi recentissimi, anche grazie all’attività di tutela della Comunità Montana dell’Alta Tuscia, è divenuto coltura interessante per tante nuove generazioni che intravedono nel recupero di produzioni agricole di nicchia, una risposta alle prospettive future proprie e della propria terra.
di Tamara Gori
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