Conviene anzitutto intenderci sui termini.
Il cibo immaginario è fatto anche di luoghi, perduti, sconosciuti o vissuti che siano, e se qualcuno pensa che l’Osteria sia solo un posto dove andare a mangiare, faccia come al gioco dell’oca o al Monopoli: torni alla casella del via e salti la pagina.
L’Osteria di cui parliamo non ha stelle, forchette o cappelli, non è recensita sulle Guide e non si lascia trovare facilmente, a meno che non sia lei a volerlo, e in ogni caso, quando la troviamo è quasi sempre in maniera insolita, con un velo di casualità che mi piace pensare sia solo l’apparenza che copre la trama ordita da un destino sapiente.
Sospettavo da tempo della sua esistenza o, meglio, in qualche modo ne avvertivo necessità e presenza con sensazioni che me ne facevano seguire in ordine sparso le tracce, per quanto fossero labili, sfuggenti e mai decisive.
Ma quando il tempo è maturo, le cose accadono ed è così che seguendo una discreta passione per il rovistio perditempo, da una bancarella emerge un libro che arriva a pungermi occhio, curiosità e palato. E vi assicuro che questo non è un artificio manzoniano.
Il libro che punge ha una copertina passata indenne attraverso mani e decenni e un nome che non può ingannare nessuno.
Osterie Romane è una raccolta di racconti curata da Augusto Jandolo ed Ettore Veo, racconti firmati negli anni trenta da una decina di giornalisti e scrittori tra i quali Ceccarius, uno dei fondatori del Gruppo dei Romanisti, al secolo Giuseppe Ceccarelli.
Un libro prezioso, non certo per la rarità editoriale sulla quale non mi sentirei di giurare, ma per la godibilità estrema del contenuto.
Sfogli le pagine e ti sembra di essere passato attraverso l’armadio di C.S. Lewis per ritrovarti a Narnia, tanto è veramente “altro” il mondo che filtra da carta a grana grossa e ingiallita.
Vallo a sapere che sul lato sinistro della Lungara, la via di Regina Coeli, il convento diventato carcere, e dei suoi scalini che, come si usava dire, se non hai salito non sei romano, c’erano una sfilza di osteriucce che oltre a servire chi capitava, quando le consegne non si chiamavano ancora delivery e venivano fatte da garzoni e non da runner, preparavano e portavano il pranzo per i detenuti commissionati da parenti accorati; cotolette d’abbacchio e salsicce, per lo più.
Un servizio pubblicizzato a grandi lettere sulle porte, una specie di vocazione laica e missionaria, pagata certo, ma così umana da poter sorridere al sarcasmo romanesco che, complice la sua innata indole salace, le aveva presto rinominate Osterie degli uccelli in gabbia.
Ed è proprio Ceccarius che racconta di Scarpone a Porta San Pancrazio, il cui ricordo affonda nella Casa Giacomelli che serviva ristoro già dal 1816 e che diventa Scarpone, nome che mantiene ancora oggi, perché pare che così Garibaldi, qualche decennio dopo protagonista della battaglia della Gianicolo a difesa della Repubblica Romana, usava chiamare il proprietario del luogo, un po’ oste e un po’ contadino, sempre con scarpe grosse e sporche di fango ai piedi.
Scarpone, appunto.
Ettore Veo invece torna con la memoria a una sera del 1915, la sua prima volta alla Fiaschetteria Beltramme dove si poteva bere e mangiare all’uso toscano su otto tavoli di marmo e che Beltramme Moscardini da Palazzone in provincia di Siena apre nel 1889 in via della Croce 39.
La Fiaschetteria diventa presto ristoro abituale per Trilussa, Papini, Bontempelli, Bacchelli,
Respighi e, insieme a loro e ai tanti altri, trova in Cesare Guerra, anzi, nel Sor Cesare, arrivato lì tredicenne, l’anima vera che ne seguirà la fortuna per oltre cinquant’anni.
E nel vicolo che prendeva il nome della Rupe, proprio sotto il Campidoglio, una lastra di travertino incisa a caratteri romani recitava “Alle Grotte della Rupe Tarpea- Proprietà di Luigi Falcioni e fratello” dove i Falcioni nel 1919 avevano avviato un commercio di vini diventato osteria nel 1923 e che, per i noti lavori dei Fori Imperiali, nel 1930 si trasferisce nei pressi di via Veneto dove troverà vita lunga e fortunata sino ad animare, trent’anni dopo, riti e ritmo della Dolce Vita.
E che dire del Cavalier Alessandro Rufini che nel 1850, impegnato nella stesura di un Dizionario etimologico delle vie e piazze di Roma, notando che molte di queste vie prendevano nome dai titoli di osterie, caffè, alberghi e locande si mise di buon’animo a “…formare l’elenco degli esercizi… unendovi la spiegazione dell’origine di ciascun nome e di renderlo di pubblica ragione… nell’interesse di non lasciar in oblio della posterità le opportune notizie…”.
Vede così la luce, nel 1855, quella che probabilmente è la prima guida alla ristorazione di Roma, dal titolo oggi impensabile “Notizie storiche intorno alla origine dei nomi di alcune osterie, caffè alberghi e locande esistenti nella città di Roma” e che, per la cronaca, a tutto il 1854 censisce 712 osterie, 29 trattorie, 217 caffè, 37 locande, 40 alberghi a disposizione dei 165 mila residenti e dei non sappiamo quanti turisti della Roma di Pio IX.
Rufini, per puri motivi anagrafici, non cita la Bevitoria di Felicetto, Felice Billi all’anagrafe, oste sui generis che apre in via Mario de’ Fiori 56 nel 1885 e che si sceglie i clienti sulla simpatia non mancando, nel servire ai tavoli con tuto rispetto, di far osservare che il suo locale di cucina semplice era “ …stretto, cor soffitto basso e pochi tavolini… bbono pe la gente ordinaria e l’artisti che ce se ponno adattà… ma no pe lei, ch’è abbituato a fasse servì da li camerieri co’ le farde. Dico bene?”
L’avventore non poteva che dargli ragione e di ricordarselo per una prossima volta che non ci sarebbe stata.
E visto che a Roma il mistero è sempre stato di casa, non poteva mancare nel nostro panorama l’Osteria degli Spiriti, nome che il popolino per un certo tempo diede all’Osteria dei Tre Scalini di Zì Pasquale a Monti.
A fine ottocento lo spiritismo era di gran moda e medium come Eusapia Palladino, Emma
Zanardelli o l’orologiaio Politi – il più noto medium di Roma – erano personaggi di gran lustro e contesi da tutti, nobili e popolino.
Fatto sta, che un gruppo di spiritisti mise gli occhi sulla stanzetta superiore di Zì Pasquale e scelse l’osteria, tranquilla e con licenza di rimanere aperta sino alle quattro di mattina, per incontri medianici dove, oltre agli spiriti evocati, per la felicità dell’oste correva a fiumi lo spirito del vino.
Aneddoti che si rincorrono, come la poco ricordata genesi della vocazione enogastronomica di San Lorenzo, quartiere popolare e universitario da alcuni anni luogo della movida romana con locali per ogni genere e gusto, ma dove a cavallo tra ottocento e novecento vivevano e lavorano gli operai della vetreria Sciarra e ferrovieri che, prima di tornare a casa, passavano il tempo in una delle numerose mescite e osterie, il più delle volte accompagnando solo con del pane una fojetta, l’unità di misura romana per il litro di vino servito sfuso nella tipica bottiglia da osteria, la fojetta appunto.
È stato così, sfogliando pagine e annusando storie, che alla fine mi è apparsa chiara come non mai, mostrandomi per la prima volta quello che avevo solo in parte intuito ed immaginato.
L’Osteria del Tempo Sparito, la stessa che potremmo trovare in una canzone di Guccini o magari sull’Isola che non c’è, quella della seconda stella a destra, seduti vicino a Capitan Uncino che, in fondo, fa quasi simpatia per quanto è maldestro più che cattivo.
Eccola, allora, l’Osteria del Tempo Sparito, che non è quello del secolo passato, evocato dalle cronache e dai racconti di un libro, ma quello che sempre con maggiore difficoltà riusciamo a trovare per vivere l’esperienza vera dell’Osteria, dove un pranzo o una cena non avevano il ritmo serrato dell’ultima cosa urgente della sera o della prima cosa urgente del giorno dopo.
Il tempo della lentezza, della complicità e della chiacchiera, dell’ebbrezza sottile e del sorriso, della pigrizia geniale e senza alcun fine se non essere quella che è.
L’Osteria del Tempo Sparito, irrinunciabile proprio come la vita vera.
A lei e a chi si è fatto trovare, a chi non l’ha mai cercata, a chi la troverà e persino a chi farà finta di non vederla e preferirà girarsi dall’altra parte, come un amico immaginario alzo il bicchiere e brindo alla fortuna.
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