Il dibattito sull’olio di oliva è assai complesso, sempre più complesso. Con l’apertura dei mercati ed il proliferare tra gli scaffali della GDO della produzione “industriale” di olio d’oliva, crediamo che la conoscenza della “materia” vada approfondita, a tutela del consumatore e dei produttori di olio extravergine d’oliva di qualità. Abbiamo chiesto al Prof. Mario Pacelli di fare luce, cercando di dirimere alcune questioni fondamentali per la definizione di olio extra vergine d’oliva.
Partiamo dalla prima chiarificazione, l’olio di oliva è un prodotto agricolo o un prodotto derivante dalla trasformazione di un prodotto agricolo quali sono le olive?
“La questione può apparire di scarso interesse pratico: diventa molto importante se si riflette che i trattati della Comunità europea includono tra settori oggetto della regolamentazione comunitaria i prodotti agricoli, mentre quelli alimentari sono considerati non in blocco ma con riferimento ai singoli prodotti (carne, latte, olio, ecc.). Per quanto riguarda specificamente l’olio d’oliva, la distinzione tra produzione delle olive (prodotto agricolo) e trasformazione e commercializzazione dell’olio è scaturita dai regolamenti comunitari numero 136 del 1966 e numero 754 del 1967. Come si legge nella sentenza emessa nel 1977 dalla Corte della comunità europea, alla quale la questione era stata rimessa dalla Corte di cassazione italiana, a norma dell’articolo 177 del trattato CEE, quei regolamenti hanno operato una netta distinzione tra la cultura dell’oliva e la produzione dell’olio d’oliva. La normativa comunitaria ha infatti fino ad oggi regolato la produzione e commercializzazione dell’olio d’oliva, pur lasciando spazi alla legislazione nazionale per la ulteriore regolamentazione della materia. Tutta la normativa italiana conseguente tiene ben distinto il settore agricolo (olive) da quello artigianale ed industriale (olio): se così non fosse avverrebbe infatti che gli oleifici, anche quelli che miscelano oli importati con olio italiano, dovrebbero rientrare nella disciplina delle attività agricole”.
“Coerentemente con queste premesse la recente legge regionale pugliese numero 9 del 2014, non impugnata dal Governo e quindi da esso ritenuta conforme sia alla Costituzione che ai trattati internazionali, ha stabilito norme sui frantoi oleari artigiani, ritenendo implicitamente l’attività di trasformazione ben distinta da quella di coltivazione delle olive e totalmente autonoma rispetto ad essa. Malgrado queste premesse, il riconoscimento normativo dell’olio prodotto con metodo artigianale continua ad essere negato con la motivazione ufficiosa che la produzione di olio è attività agricola, che nulla ha a che vedere con l’artigianato, e ciò in netto contrasto con la giurisprudenza comunitaria”.
Un bel problema, pieno di cavilli, lobby, burocrazia. Come se ne può uscire per vedere finalmente riconosciuta la figura del Mastro Oleario e del frantoio artigiano, dunque di un olio “artigianale”, ben distinto da quello industriale?
“Qualunque tentativo condotto sul piano amministrativo e legislativo per regolare la materia si è scontrato contro un muro burocratico prima che politico. Birra artigianale sì, olio artigianale no, anche se in entrambi i casi si tratta di trasformazione di prodotti agricoli: difficile comprendere la logica di ciò che logico non appare. Le organizzazioni dei frantoi oleari, convinti che il riferimento alla lavorazione artigianale di olive italiane nelle etichette sia decisiva per la trasparenza della filiera e al tempo stesso per difendere l’olio italiano dall’invasione di quello importato, stanno studiando come portare la questione dinanzi alla Corte della comunità europea affinché chiarisca ancora una volta che la produzione di olio di oliva e la sua commercializzazione nulla a che fare con l’agricoltura. La giurisprudenza della Corte lascia pochi dubbi su quale sarebbe la sua decisione”.
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