La città della pietra. Così viene definita Matera con i suoi Sassi. Abitati fin dal Paleolitico e abbandonati dagli anni Cinquanta del Novecento, costituiscono oggi l’attrattiva più singolare di un insediamento antropologico nominato nel 1993 come Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. E quei Sassi sono stati da sempre custodi di tradizioni millenarie e riti a volte apotropaici, fusione attuale di sacro e profano, testimoni silenti di stratificazioni non solo geologiche di una cultura che ha saputo modellare sulle proprie necessità un territorio ai più ostile e ingannevole.
Oggi, come pochi altri Matera e il Materano hanno saputo mantenere integri aspetti assolutamente peculiari della loro storia rurale, plasmandoli su una contemporaneità fatta di turismo, di cultura, di raffinata ricerca di elementi che rendono un luogo non ripetibile. Non è un caso se proprio a Matera si sia potuto ripetere l’esperimento di albergo diffuso che Daniel Kihlgren e Sextantio hanno realizzato con maestria a Santo Stefano di Sessanio in Abruzzo. Oggi anche Matera ha conosciuto la cura nel ridare dignità al suo Patrimonio Storico Minore, quello che tesse la trama sociale, urbana e paesaggistica del nostro Paese in tutta la sua lunghezza, storica e geografica.
A questo punto tornare a fare il pane in casa non è solo una moda, e non è più una necessità. È la riconquista di una identità, del senso di appartenenza alla propria terra, di radici che riportano ad una memoria che è il presente. Ma il valore simbolico del pane si perde nella notte dei tempi: segno di abbondanza, era spesso l’unico cibo presente sulla tavola di famiglie contadine e la sua sacralità, prima che religiosa, era salvifica. Per questo si baciava il pane quando cadeva a terra, o si raccoglievano le briciole sulla tavola per non sprecarle, o si considerava sacrilegio buttarlo. E poi mai mettere il pane in tavola capovolto! Segno di maledizione, addirittura presagio di morte, si riprendeva ad alta voce chi lo faceva, per indicarlo alla comunità.
Ancora oggi questo gesto fa parte di un comune sentire che lo vieta a tavola, ma la sua origine va ricercata all’inizio del XV secolo e tra i cugini d’Oltralpe. In quel periodo infatti, Carlo VII re di Francia, aveva imposto una tassa in natura destinata a ripagare il boia. I panettieri pagavano in forme di pane, che però ponevano rovesciate sul bancone, ad evidenziarne la macabra destinazione. Un filo teso tra sacro e profano che caratterizza il rituale del fare il pane come nessun altro alimento al mondo. La tradizione di incidere la massa lievitata con il segno della croce, si diffonde dopo la caduta dell’Impero Romano, attraverso una pratica tutta cristiana, ma mutuata da rituali che risalgono ai Greci.
Quest’ultimi infatti furono i primi veri maestri della panificazione, coloro che applicarono le incisioni sul pane per permettere una maggiore lievitazione della massa e una cottura omogenea della forma. Non solo. I Greci, che panificavano di notte per avere forme di pane fresche tutti i giorni, producevano ben 70 diversi tipi di pane, tutti protetti da Demetra, dea greca del grano e dell’agricoltura e del ciclo delle stagioni. Non è un caso che i Greci a lungo dominarono nel sud Italia, e non è un caso se per secoli la Lucania è stata considerata granaio munifico sia per i Greci che per l’antica Roma.
E a voltarsi indietro, il pane è tutt’ora il filo di Arianna che lega questa terra. Il Pane di Matera, prodotto DOP dal 2008, è una delle eccellenze di questo territorio. Il grano duro con cui lo si impasta è esclusivamente quello italiano, proveniente da queste terre assolate e dal color dell’oro; spesso le varietà sono quelle pregiate del Senatore Cappelli e la lievitazione è possibile solo con l’impiego del lievito madre vegetale. Lunga lievitazione, pasta gialla e crosta scura dalla leggera persistenza amarognola lo rendono riconoscibile rispetto alle altre tipologie del sud Italia. Meno noto del suo fratello di Altamura, anche a causa di una campagna di promozione meno convinta e strutturata, lo si trova con difficoltà fuori dal suo territorio di produzione.
La pezzatura, oggi ridotta a forme da 1 o 2 chili, in passato poteva raggiungere anche i 9 chili, segno ineccepibile di una panificazione praticata anche ogni due settimane, all’interno di ogni famiglia. Di certo a casa non esistevano forni tali da poter accogliere forme di siffatte dimensioni, quindi la cottura avveniva nei forni comuni, grandi e luoghi di socialità. Il problema però era come riconoscere il proprio pane rispetto a quello delle altre famiglie. È così che nascono i timbri. In realtà non era una pratica originale. Già nell’antica Roma era in voga l’usanza di marchiare il pane, e dal simbolo utilizzato era possibile già risalire al mugnaio che lo aveva realizzato.
Per le famiglie materane, a distanza di secoli, il pane si marchiava con le iniziali della famiglia di appartenenza, ma la particolarità di quei timbri, realizzati esclusivamente in legno durante la transumanza,come da tradizione pastorale, era il simbolo che li sovrastava. Animali, allegorie, simboli fallici, elementi legati alla natura e alla sua fertilità, tutto contribuiva a concepire il prestigio del timbro e della famiglia a cui apparteneva. Le famiglie nobili se li facevano intagliare su commissione con legni pregiati e spesso con lo stemma di famiglia. Ma in tutti i casi il timbro diventava parte integrante dell’eredità, trasmesso dal capofamiglia al primogenito dopo la sua morte. Il gallo era il simbolismo più diffuso, non solo in virtù del suo legame con la fertilità, l’abbondanza e la ricchezza, ma soprattutto perché tradizionalmente capace di tenere lontano il malocchio e l’invidia, la malasciorta o la mascije.
E questo vale anche oggi. Una tradizione ripresa da artigiani che recuperano legni e intagli per ricreare oggetti di artigianato non solo dedicati ai tanti turisti nella Città dei Sassi, ma riacquistati dalle famiglie che lentamente stanno recuperando l’antica tradizione di fare il pane in casa. Uno su tutti Manuele Mancini, ebanista di pregio, che dal 1995 ha riscoperto e riproposto questo oggetto anche in versione più ironica e per usi lontani da quelli autentici; l’anello che sovrasta il timbro, da regalare ai novelli sposi come augurio di amore duraturo, ne è un esempio, accanto al galletto bifronte, che protegge dal malocchio, ma anche dalle chiacchiere fatte alle spalle.
Un’artigianalità lunga trent’anni, emblematicamente localizzata tra i Sassi recuperati della Civita di Matera, per trasmettere a tutto tondo ciò che è la cultura dei Sassi, del pane e del suo simbolismo antropologico.
di Tamara Gori
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