Pasqua e tipicità gastronomiche, tanto si è scritto, ma proviamo a vedere le cose sotto un’altra “luce”.
La Pasqua, con i suoi riti millenari, i suoi sapori e i suoi simbolismi è di certo il culto più importante della fede cristiana, ma non sua prerogativa esclusiva. Il suo ancoraggio alla ritualità della Primavera, festeggiata già secoli prima dei fasti dell’Impero Romano, è ancora oggi testimoniato dalla sua cadenza, ogni anno diversa: alta o bassa che sia, è sempre la Domenica successiva al primo plenilunio dopo l’Equinozio di Primavera.
Altra prerogativa della Pasqua? Le sue tipicità gastronomiche. Diverse da regione a regione, racchiudono simbolismi che si perdono nella notte dei tempi, ripercorrendo tradizioni antiche o sapori mutuati da popoli lontani.
Iniziamo dal simbolo pasquale per eccellenza: l’uovo. Fondente, al latte, bianco, nocciolato, aromatizzato o modicano, meglio ancora se artigianale, l’uovo arriva da molto lontano. C’è chi narra che Maria facesse giocare Gesù con delle uova colorate o che ne avesse trovate al sepolcro del figlio la domenica della Resurrezione. Da sempre simbolo di fecondità e abbondanza, è solo nel 1176 che torna in auge il loro uso durante le festività pasquali: in quell’epoca, il Re di Francia Luigi VII, di ritorno dalla Seconda Crociata, fece colorare e distribuire al popolo le numerosissime uova ricevute dall’Abbazia di Saint-Germain-des-Près per festeggiare la vittoria. L’abbondanza delle uova accumulate in Quaresima, ne spiega la loro diffusione in tante ricette del periodo pasquale in tutta Italia: ad esempio intere all’interno della Torta Pasqualina in Liguria, una gustosa torta salata riempita di bietole, ricotta e uova sode e rivestita da almeno 33 strati di sfoglia, a ricordare gli anni di Gesù (ma difficilmente se ne registrano più di dodici).
Ancora uova, ma stavolta esterne, in una tipicità del Sud Italia: la cuddura. Già in uso presso i Greci, arriva in Italia come tradizione ortodossa-bizantina, con un’ampia diffusione e nomi diversi da regione a regione: Scarcelle in Puglia, Scarcedde in Basilicata, Cuzzupe in Calabria. Si tratta di una corona, sia dolce che salata, in cui si inseriscono uova sode in numero generalmente dispari; la forma a corona subisce varianti diverse: dai pupazzi per i bambini, al cuore da donare a Pasqua ai propri fidanzati, al cestino che augura abbondanza.
Altra presenza dell’uovo nell’arcinoto casatiello ‘nzogna e pepe con il quale arriviamo in Campania. Torna la forma a corona, simbolo di ciclicità del tempo, arricchita nell’impasto da pecorino, pepe, salami piccanti e uova sode, generalmente poste all’esterno e trattenute da intrecci di impasto. E se la digestione può risultare impegnativa, basta ricordare che a Napoli il termine casatiello è in uso proprio per indicare quelle persone che non ci vanno né sù né giù.
Ma Campania vuol dire anche Pastiera. La leggenda narra che le mogli dei pescatori avessero lasciato sulla spiaggia dei cesti contenenti fiori d’arancio, uova, ricotta, frutta candita e grano, per convincere il mare a riportare a casa i loro mariti. La mattina dopo, non solo il mare aveva esaudito il loro desiderio, ma aveva anche lasciato il profumato dolce creato dall’andirivieni delle onde.
Attraversiamo il Tirreno e arriviamo in Sardegna, dove troviamo le pasadinas o pardulas, caratteristici dolci ripieni di ricotta al sud e di pecorino al nord dell’isola, dalla caratteristica forma a corolla e dal colore giallo intenso dato dallo zafferano.
Ancora isole e ancora dolci: la Cassata siciliana, dolce palermitano di orgine araba (il nome deriva da “Quas’at”, ciotola rotonda). L’origine è intorno all’anno Mille, periodo di massimo splendore e sfarzo della dominazione araba in Sicilia. In quel periodo i cuochi dell’Emiro si dilettavano in esperimenti nell’assemblaggio di mandorle, ricotta, cannella, vaniglia, ancora oggi gli ingredienti principi della cassata. Le decorazioni barocche invece sono state inserite solo successivamente, riprendendo i colori e gli ornamenti che caratterizzarono la successiva dominazione spagnola sull’isola.
Dolci soffici e colorati sono quelli che ci aspettano in Umbria. La Ciaramicola è una ciambella dall’impasto colorato di rosso grazie alla presenza dell’alchermes, ricoperta di glassa bianca e confettini colorati, che le ragazze usano regalare ai propri fidanzati per la Pasqua. Variazioni del tema le troviamo nella Crescia marchigiana, nel Fiadone abruzzese, nella Pizza dolce di Pasqua nel Lazio, nella Pinza triestina e, perché no, della Colomba di Pavia, biblico simbolo di pace già in uso ai tempi del Re longobardo Aldoino, nel VI secolo.
Ma dobbiamo arrivare in Abruzzo e ancor più nel Lazio, per ritrovare l’altro elemento altamente simbolico della Pasqua cattolica: l’agnello. Se nella Pasqua ebraica simboleggia l’esodo dall’Egitto verso la Terra Santa (il termine Pasqua deriva dall’ebraico Pesach, passare oltre), per i Cristiani è simbolo di Resurrezione. Lo troviamo in molte varianti, una su tutte come coratella, spezzatino di interiora cotto a lungo nella cipolla e generalmente servito nelle abbondanti colazioni pasquali della Tuscia, tradizione secolare che rompeva le lunghe ristrettezze alimentari della Quaresima.
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