Non ti fidare di ciò che senti, di ciò che vedi: l’unico giudice è il nostro palato, il nostro personalissimo gusto. Certo, è utile avere qualche informazione in più per scegliere l’olio che va nel “motore” più prezioso, quello del nostro corpo. Per aiutarci a scegliere consapevolmente e a coltivare il nostro gusto. Ma dietro ogni olio di alta qualità c’è un’azienda, c’è un lavoro, c’è un volto. Sempre più spesso femminile. E anche conoscere le storie aiuta a scegliere. Difficoltà e successi si rincorrono nella storia di un olio perché ogni stagione è diversa e regala un frutto diverso.
È iniziato il conto alla rovescia: mancano quattro mesi alla raccolta. Le piccole olive fanno capolino tra le foglie, una bella fioritura di fine maggio e l’allegagione è andata molto bene. È una buona annata.
Fare l’olio è un lavoro duro e pieno di incognite. Un oliveto è splendido da vedere ma fa battere il cuore a chi lo lavora se il sole si oscura e se, fuori tempo, piove o grandina. E’ un’azienda senza tetto alla mercé delle bizzarie del tempo. E così le stagioni, per un olivicoltore, sono legate ai primi fiori bianchi che rendono l’olivo una nuvola piena di buoni auspici (la primavera), alla allegagione (l’inizio dell’estate) che è buona se tanti di quei fiori sono diventati piccolissime olive, allo sviluppo sano del frutto (settembre), alla invaiatura (ottobre) quando le olive da verdi diventano violette, alla raccolta (ottobre-novembre ma ogni area geografica ha il suo periodo) che è generosa se il tempo non ha fatto tante bizze e se la mosca olearia ha volato lontano dagli alberi. I giorni della raccolta i campi si animano di volti, di voci, di rumori delle macchine, di canti. E’ una grande gioia vedere quanto un albero è generoso e regala i suoi frutti. E la giornata è lunga perché le olive raccolte vanno messe nelle cassette e portate al frantoio dove nella notte o, al più tardi, il giorno dopo vengono frante per arrivare finalmente all’olio, questo miracolo della natura.
Ma se le olive sono sugli alberi e in abbondanza, ciò non accade per caso. È il risultato di un lungo e paziente lavoro. Il momento ideale per la raccolta non dipende soltanto dalla invaiatura, come è scritto nel manuale del buon agronomo, ma soltanto chi ha curato il campo sa qual è il momento giusto per ottenere l’olio che vuole. Mediamente, a seconda della stagione e dei territori, la raccolta inizia tra il 10 e il 20 di Ottobre ma per esempio al sud si inizia anche a fine settembre. Le giornate sono di solito ancora belle e lunghe. La mattina non si comincia mai troppo presto perché le piante sono piene di rugiada e con i sistemi di raccolta meccanizzata potrebbero soffrire.
La produzione di un buon’olio è il risultato di equilibri estremamente fragili: un fattore importantissimo è sicuramente il tempo. Sbagliare il periodo di raccolta vuol dire compromettere il sapore dell’olio. I metodi di raccolta si sono evoluti e variano in base alle tradizioni, alle caratteristiche degli alberi e del suolo.
Non basta il clima giusto, la giusta morfologia del terreno, la varietà delle piante, ma certamente la combinazione e l’equilibrio fra questi diversi fattori determina la qualità per cui è giusto affermare che la qualità nasce sul campo, dalla cura con cui in ogni stagione di ogni anno si segue la crescita delle piante, la loro salute, il nutrimento, l’aria che respirano. E sul campo nasce anche il sapore, il blend. E la freschezza del frutto è determinante per ottenere un olio eccellente. Per questo tutte le sere dagli oliveti parte il furgone con la raccolta del giorno. Entro le 24 ore vengono molite in modo da evitare 1’innalzamento anche di quei decimi di punto dell’acidità dell’olio, e vanno molite con tecnologie estrattive in continuo e con la spremitura a freddo. Ciò è la premessa indispensabile per conservare inalterate le pregiate sostanze contenute nell’oliva e dare ai nostri oli le loro preziose sfumature aromatiche e i loro profumi. Certamente era romantico il vecchio frantoio con le macine in pietra e i fiscoli di erba palustre o di fibra di cocco ma a quei tempi si badava poco alla qualità dell’olio e si teneva in poco conto il fatto che la luce e l’aria ne avrebbero cambiato le caratteristiche. Oggi ci sono macchinari ad alta tecnologia che consentono al mastro oleario di fare oli di alta qualità.
Un rito che si ripete ogni anno, sempre uguale e sempre diverso. Una volta le olive erano chiuse in sacchi di juta, oggi arrivano in cassette areate, verdi o rosse, e subito vengono travasate nei bins in attesa del processo di molitura dal peso alla defogliatrice, dalla lavatrice al frangitore, dalla gramolatura al decanter fino al separatore quando l’olio è pronto per farsi vedere!
E’ in questa fase che entra in gioco l’assaggiatore che valuta i profumi, i sapori e le caratteristiche di ogni singolo olio per poi decidere i diversi blend. La molteplicità dei sapori e degli aromi, la varietà dei gusti si ottiene miscelando le singole cultivar, sfruttandone la particolarità e le potenzialità uniche. Si versa l’olio nel bicchiere e lo si guardo: gli occhi si riempiono di un verde che imprigiona i bagliori iridescenti dello smeraldo, attraversato da raggi di luce. Come se il sole si smembrasse in tanti fili d’oro. Si scalda il bicchiere tra le mani facendolo girare lentamente. Il calore della mano diventa il suo calore, eppure l’olio resiste, non si fa corrompere, rimane unito e compatto, morbido e vellutato come se si opponesse al suo destino, quello di diventare goccia. E finalmente libera il suo profumo: fitto e profondo, un’essenza di natura viva che sa di erba appena tagliata, in un campo dove l’oliva si riappropria della sua identità di frutto vivo e polposo. La sua morbidezza levigata bagna le labbra, avvolgendo il palato come una carezza, mentre la trama cremosa attraversa la lingua e infine arriva sbarazzina – con punte ficcanti di amaro – giù, oltre la gola, a liberare quell’improvviso piccante che lo rende irresistibile. Sembra tutto finito quand’ecco arriva un sentore di carciofo o di cardo selvatico. A volte coglie di sorpresa, offrendo un gusto di mela o di mandorla. Alla fine, rimane in bocca il sapore di una grande armonia. È il miracolo dell’olio.
L’assaggio – finalizzato al controllo della qualità e alla creazione del blend – serve anche per definire la politica commerciale e il marketing degli olî: gusto amaro e piccante per il fruttato intenso oppure leggero e gradevole per il fruttato leggero o ancora morbido per il fruttato medio Così da offrire al consumatore diversi gusti da abbinare in cucina. Certamente l’obiettivo di un’azienda è vendere i propri prodotti, ma nel caso dell’olio il risultato che conta è anche quello del raggiungimento della felicità. La felicità data da un cibo buono, da un prodotto che fa bene, da un bambino che scopre una fetta di pane con l’olio e, incredulo, ride con gli occhi di fronte a tanta squisitezza. È una grande responsabilità, soprattutto avendo a che fare con un lavoro, quello dell’assaggiatore, il cui esame, la cui valutazione, consentono di creare un vocabolario condiviso, un criterio di giudizio valido per tutti quelli che lavorano in azienda. Un gusto stabile e collettivo, verrebbe da dire, che coinvolge tutti, clienti e olivicoltori, e soprattutto chi, in frantoio, dà il meglio di sé.
La cultura dell’olio si è molto diffusa negli ultimi dieci anni, nel mondo dei professionisti e non solo. Oggi è più difficile che un ristoratore o un buyer della grande distribuzione decida di proporre un olio senza averlo prima assaggiato. E sempre più spesso anche i consumatori preferiscono avere sulla propria tavola un olio che hanno prima potuto degustare.
Per giudicare la qualità di un olio conta soprattutto la competenza e l’esperienza professionale dell’assaggiatore, mentre per fare la qualità ci vuole la sapienza del mastro oleario e la creatività dell’artigiano. E questo insieme a fare la differenza rispetto alle cosiddette industrie di marca, grandi aziende – una volta multinazionali, oggi anglospagnole o cinesi – che imbottigliano gli oli più diversi, sfruttando il potere della pubblicità per blandire e confondere i consumatori circa la loro origine. Gli unici veri prodotti tipici sono quelli artigianali come l’olio di frantoio, che recupera un’arte antica, radicata nella nostra civiltà. Nella Firenze del 1300, l’arte degli oliandoli trova espressione organizzata in un’associazione dei mestieri denominata “Corporazione dei Mastri Oleari”.
Negli scritti di Pico della Mirandola l’homo faber e colui che cerca l’autonoma creatività. L’homo faber del terzo Millennio, come nel Rinascimento, è il mastro oleario. Il suo ideale è un artigianato moderno, che garantisca la qualità di ogni segmento della filiera e padroneggi tutte le fasi della produzione/creazione del prodotto.
Per chi produce olio dalle olive, per l’artigiano del cibo l’orgoglio di un lavoro ben fatto, con le proprie mani, vale più di qualsiasi profitto.
Scriveva Oscar Wilde “Si può prevedere tutto tranne il futuro ma si può lavorare per costruirlo migliore del presente”.
PS. Ho voluto descrivere come si fa l’olio e soprattutto come si fa la qualità dell’olio per la semplice ragione che dalle olive si può estrarre questo prodotto in tanti modi diversi ma la qualità dipende dal processo di produzione che inizia nel campo e finisce nel frantoio. È la qualità che fa di un grasso, di un condimento un elicamento e cioè un prodotto metà medicina e metà alimento. Qualcosa che piace al palato ma che fa bene, molto bene alla salute. Come dimostrano anni di ricerca scientifica in italia e nel mondo. Basti pensare al brufene. Questo noto ed efficace antinfiammatorio, terapia di tanti diversi malanni, si trova in natura nella europeina che si estrae dalle foglie dell’olivo o più semplicemente nell’extravergine che mettiamo a tavola, ma alla condizione che sia un olio di alta qualità.
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