Terra Madre Salone del Gusto.
Si è appena conclusa a Torino la cinque giorni della kermesse internazionale di Slow Food dedicata al cibo, al suo rapporto con il consumatore, ai Presidi di salvaguardia; tutto ciò che Slow food ha sapientemente racchiuso nello slogan “buono, pulito e giusto”. Questa è stata l’edizione dei cambiamenti: la manifestazione biennale infatti non solo ha abbandonato gli spazi chiusi del Lingotto, approdando en plein air nelle aree più suggestive della città di Torino, ma ha anche modificato il nome in Terra Madre Salone del Gusto, accogliendo il tema “Volere bene alla Terra”.
Una serie ininterrotta di incontri, di prodotti e presidi, laboratori del cibo, appuntamenti didattici e personal shopper (!). Forum, dibattiti, partecipazioni, celebrazioni, tra alleanze dei cuochi, comunità del cibo, Terra Madre. Relatori di primo livello, a molti dei quali si è concessa la ribalta importante di un palcoscenico internazionale per mettere sul tavolo della discussione tematiche sempre più cocenti: i rapporti tra cibo e agromafie, tra povertà della terra e migrazioni, tra guerra e cibo, tra cibo e salute: Gino Strada di Emergency; Don Luigi Ciotti di Libera; Serge Latouche, economista e filosofo francese, ideatore del movimento per la “decrescita felice”; José Bové, contadino, attivista, scrittore ed europarlamentare che lotta per la riaffermazione del cibo come produzione e non come consumo. Nomi, tra i tanti, che basterebbero da soli a dare un senso eccelso a questa edizione di Terra Madre Salone del Gusto.
E in effetti, il merito grande che va riconosciuto a Slow Food, è quello di dare ribalta a tematiche che sempre più terranno in ostaggio il futuro del mondo. Prima di Slow Food parlare di cibo industriale o artigianale era utopia da figli dei fiori; parlare di lentezza del gusto e delle pratiche agricole era da sognatori fuori dal tempo che rinnegavano il “progresso”. Prima di Slow Food permettere ai produttori del Bitto Storico di avere tutela nella loro battaglia quotidiana per non scomparire, era attività da terroristi fuorilegge. I valori fondanti di Slow Food sono andati a pescare tra gli alti ideali del cibo etico, dell’etica applicata all’economia (tema così caro ai grandi economisti ribelli!), del giusto rapporto tra cibo, nutrizione e sostenibilità per il pianeta. Si sogna il cibo vero e il cibo per tutti; si lotta per non disperdere biodiversità e cultura del cibo. Si parla, ci si incontra, si disserta sui massimi sistemi.
Ma mi chiedo: dopo queste grandi idee, dopo queste belle parole; dopo la ribalta d’eccezione offerta sul palcoscenico del cibo buon pulito e giusto, cosa rimane? Quando le luci di Terra Madre Salone del Gusto si spengono e i riflettori si raffreddano; quando si torna a casa, ognuno nel proprio sperduto angolo di mondo, a fare i conti con la propria quotidianità di lotta e di rivincita; di tutto ciò che è stato detto e celebrato, cosa rimane nei mille rivoli delle condotte che si snodano sul territorio nazionale, sempre più piccole e sempre più presidio di personalismi da piccoli Don Abbondio di provincia? Intendiamoci. Io sono grata a Slow Food. Lo sono per tutto quello che ho elencato, lo sono per gli ideali di cui si fregia e che rinfrancano il mio cuore di quarantenne tradita dai tempi così come sono. Grata a Slow Food per aver promosso quella cultura del cibo che si rischiava di perdere, per aver dato visibilità a prodotti sconosciuti e a popoli succubi di sfruttamento economico.
Ma se è vero che la critica serve a migliorare, allora devo spingere l’acceleratore sulle contraddizioni interne ed esterne a Slow Food; lo devo al barlume di indignazione e di ribellione che ancora alberga nel mio cuore orfano di una sinistra idealista, che si è persa in un esercito di pragmatismo liberista. E il tradimento dei valori fondanti di Slow Food suona come un peccato originale da cui nessun battesimo può redimere. Perché se le parole sono belle, le azioni devono esserlo ancora di più. E allora mi chiedo: dove è la Rivoluzione promessa da Slow Food? Dove è la rottura con i poteri dell’agro industria, con la grande distribuzione, con quelle multinazionali che lavorano in direzione ostinata e contraria rispetto alla chiocciolina rossa? Rispetto ad esse Slow Food rischia di rimanere al palo, con l’incapacità di ribadire in maniera inequivocabile un ruolo che non può essere intercambiabile.
E ancora mi chiedo: dove è il cibo per tutti? Quando i prodotti che entrano nel circuito Slow Food subiscono un innalzamento del 30% dei loro prezzi; quando le campagne di comunicazione costruiscono un velo “radical chic” dietro la scelta del cibo buono pulito e giusto; quando biologico, ecosostenibile o presidio diventano un brand e come tali il lusso del cibo, non si rischia che la cultura del cibo non sia più il fine, ma solo il mezzo per poter giungere a qualcosa che è altro da Slow Food? Non si rischia di ritrovarsi davanti ad una vetrina, bellissima e accattivante per carità, ma di fronte alla quale la massa può solo guardare prima di direzionare le proprie scelte alimentari verso quello junk food che è l’unico che può permettersi? Non si è già realizzato uno scollamento tra ciò che era e ciò che è?
Perché altrimenti non riesco a spiegare il vuoto che si è venuto a creare tra il piccolo produttore e il consumatore finale nel tessuto capillare di queste terre. Vuoto che Slow Food sembra non riuscire più a colmare, ma che altri movimenti stanno invece saturando con più ostinazione, da Genuino Clandestino, all’Associazione Rurale Italiana, all’Associazione Internazionale Permacultura. Movimenti dal basso, come direbbe chi usa bene le parole, che non vogliono cambiare il sistema dal di dentro, perché si prefiggono essi stessi di essere sistema. Altre contraddizioni? Quella di usare le parole e i valori a proprio uso e consumo. Perché il cibo può essere etico e il lavoro non deve esserlo? Perché infarcire con parole altisonanti come volontariato, pratiche che altisonanti non lo sono, come il lavoro gratuito?
Anzi, in alcuni casi, come è stato per Expo e come purtroppo si è ripetuto per Terra Madre Salone del Gusto, lavorare gratis diventa addirittura un privilegio concesso a chi può partecipare al cambiamento. Perché va bene la gavetta, ma che Legambiente e Slow Food abbiano chiamato a raccolta centinaia di volontari per potersi occupare di raccolta differenziata e di delucidazioni su come si usano posate e stoviglie mater-be, durante quella che di gran lunga è la più buona pulita e giusta rassegna sul cibo al mondo, mi sembra la più grossa contraddizione che questi tempi malandati ci hanno lasciato in concessione…gratuita. Su tutto questo rivoglio indietro la mia Slow Food!
di Tamara Gori
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