Come dice un vecchio detto popolare, piove sul bagnato. Un fenomeno che si manifesta in modo inequivocabile: il declino dell’olivicoltura. Il freddo è un incidente stagionale, ma la mancanza di olive dipende dalla insufficienza di alberi. Il dibattito sulla crisi è aperto da sempre e da sempre si recitano ricette risolutive: un nuovo umanesimo, un nuovo rinascimento, un nuovo risorgimento e di “nuovo” discettando. Non si sa più quale altro sostantivo inventare da associare all’aggettivo “nuovo” per titolare o introdurre uno dei numerosi convegni, articoli, conferenze o semplici riunioni di associati che si organizzano sulla crisi dell’olio extravergine d’oliva (ad link). E’ diventato uno sport nazionale: e così mentre in patria facciamo accademia, le navi cargo sbarcano migliaia di tonnellate di fantastico olio tunisino o andaluso che torna a solcare le onde dell’oceano in milioni di bottiglie che di extravergine e di italiano hanno soltanto il nome. Diciamo la verità: i nostri industriali dell’olio forse non sanno produrlo ma, meglio di chiunque altro, sanno come si compra, come si miscela e soprattutto come si confeziona (a volte come si maschera). Così come dobbiamo sapere che non basta inneggiare alla natura e ai suoi frutti, alla terra e a quanti la lavorano, perché il cibo è cosa ben più complessa. E cosa ancora più complessa è la cultura da cui origine il cibo, e la cultura che il cibo genera. E il sistema economico e sociale che determina.
Parafrasando Carlo Petrini potremmo dire che per la cultura e l’economia del cibo “non ci vogliono i processi seriali e lineari tipici dell’industria, ci vuole la sapienzialità degli uomini e delle donne” intendendo per uomini e donne non quelli di cui parla Rousseau, ma piuttosto quelli che aprirono bottega nella Firenze di Lorenzo il Magnifico: gli artisti e gli artigiani.
Materia prima e sua trasformazione, prodotto agricolo e artigianato, un binomio inscindibile. Nessuno può negarlo, ma nessuno ne parla. Eppure è la chiave di volta, anzi di svolta.
L’uso dell’olio in cucina, l’abbinamento fra gli alimenti, il rapporto gustativo fra olio vegetali e cereali. Tutto ciò reso di particolare gusto dall’originale lavoro dei nuovi chef, che definiscono “voler bene al prossimo” le loro creazioni in cucina. E a riprova di ciò, non il giudizio in cattedra del dietologo alla moda, ma la scienza dell’alimentazione che documenta come l’extravergine di alta qualità sia un nutraceutico di eccellenza, prezioso per la salute. Con una conclusione significativa: non tutti gli oli estratti dalle olive fanno bene, solo quelli di qualità hanno un reale affetto positivo e preventivo per molte patologie. È venuto il momento di tornare a chiamare le cose con il loro vero nome e di sostituire il linguaggio neutro e amorfo delle assoluzioni collettive con le vecchie categorie del linguaggio biblico che definisce Male ciò che offende la dignità dell’uomo e Bene ciò che la promuove. Quindi se soltanto la qualità dell’extravergine dalle olive determina effetti benefici sulla salute dell’uomo – premesso che la qualità la si ottiene quando il mastro oleario, partendo da un frutto sano, è capace nella fase di estrazione di trattenere nell’olio tutte le sue componenti fenoliche e le vitamine A, D, E che altrimenti finiscono nell’acqua di vegetazione – dobbiamo dire che tutti gli altri grassi alimentari, dall’olio d’oliva agli oli si semi, ai grassi animali (come la margarina), che si ottengono con additivi chimici, fanno male. E nella lista non può mancare quel cosiddetto extravergine-civetta a 3 euro che torna ad affollare gli scaffali dei supermercati.
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