Dolcetto o scherzetto? No, non è Halloween, parliamo di un altro “dolcetto”.
Prologo: è probabilmente una sensazione ancestrale quella che mi si ripropone automaticamente, non passando per la corteccia cerebrale, ma partendo direttamente dall’ipotalamo. Non c’è possibilità di elaborarla, non ce la faccio: non riesco a trovare una soluzione di continuità di fronte ad un calice di Dolcetto. Sicuramente in una vita precedente sono annegato in una botte di questo vino e ora, per compensazione karmica, ogni volta lo critico con un’accezione del tutto negativa.
Fa 40 gradi, anche se la cornice è ormai quella del crepuscolo. La bottiglia è incartata fino al collo con la stagnola; il tappo è stato rimosso prima che arrivasse al tavolo. No, non è una commissione d’assaggio, né una degustazione tecnica; semplicemente qualcuno ha pescato dalla mia cantina e ha voglia di mettermi alla prova! L’aderenza della stagnola lascia intravedere le forme: ha i fianchi larghi e le spalle basse; la bottiglia è un’Albeisa (o forse una Borgonona?). Va beh, di questi tempi poco importa, l’abito non fa il monaco. Il vino entra nel bicchiere: un rosso – e sono sempre 40 gradi – ma nonostante la mia idiosincrasia a questo colore quando le temperature sono da Deserto di Dasht-i-Lut, suscita attrazione…. Chi sei?
Viola intenso e brillante, con sfumature magenta che ricordano il lampone; limpido, ma ha in sé una parte oscura. Il naso percepisce un rumore di fondo, quello del legno: vaniglia e tabacco sono le fondamenta di un’esultanza di piccoli frutti rossi, intensi e “alcolizzati” – sotto spirito, désolé! – il tutto velato da sentori di macchia mediterranea, di erbe officinali, di mirto… Da dove vieni? Rischio: una “francesizzazione” del Cannonau? Produttore della Borgogna trasferito in Sardegna? Insorgono i sentori di viola, pellettame e una profonda oscurità… La versione semplificata di un Barolo? L’attrazione è diventata irresistibile.
Assaggio. Traccia un linea decisa in bocca; è strutturato e allo stesso tempo avvolgente, con una spalla acida che lo slancia “come un solo uomo”con la generosità alcolica; i tannini si allungano in entrata, regalandoci il pensiero di un piatto grasso, magari con altre temperature. La beva è accattivante, il sentore di mandorla tostata sulla parte finale della bocca incentiva la mano – e le labbra – a tornare sul calice, e fa ancora 40 gradi… forse 39. Non è un produttore che conosco; non è un vino che conosco… almeno spero! Se fosse un libro lo chiamerei “Noir e bevuta criminale”. Destabilizzato cedo e decido di strappargli di dosso la veste argentata che l’ha celato finora, ma prima bevo un altro sorso. Strappo. Un Lampo. Un Fulmine. O forse tutti e due?
Losna, Ovada docg 2013 di Rocco di Carpeneto. Bottiglia numero 540 delle 5000 prodotte per questa annata e per questo vino. In etichetta, bianco su nero, la scritta “i vigneti da cui proviene sono trattati esclusivamente con rame e zolfo e concimati con il sovescio di varie specie leguminose; la vendemmia è effettuata a mano in piccole cassette…”. Le rese sono irrisorie: 50 quintali per ettaro e i vigneti hanno dai 13 ai 43 anni. La fermentazione è “autogestita” come la chiamo io: i lieviti indigeni non accettano inoculazioni “dall’alto”, non esistono selezioni. La macerazione sulle bucce è prolungata. Matura 12 mesi in tonneaux e barriques. Solfiti totali inferiori a 60 mg per litro contro un limite di legge di 150. Insomma, la dimostrazione che nel vino non c’è nulla da inventarsi, ma solo allenarsi al rispetto, è qui davanti a me.
Il Dolcetto, uva storicamente utilizzata come merce di scambio, soprattutto con la Liguria da cui importava olio sale e acciughe – praticamente veicolo principe per la creazione della Bagna Càuda-, concede respiro primordiale a vini come questo: probabilmente non stilizzato, ma ghiotto, intrigante e in grado di folgorare; esattamente come il suo nome, Losna, il “lampo del fulmine” in dialetto locale. Carpeneto è quindi nei comuni da inserire nella visita di pellegrinaggio in Piemonte, anche perché qui sembra che qualcuno faccia miracoli. E io c’ho le prove!
di Raffaele Marini
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