“La cucina è di per sé scienza. Sta al cuoco farla diventare arte” diceva il grande Gualtiero Marchesi. La vita professionale di ogni chef è quindi votata a trasformare la chimica, quella dei sapori, in qualcosa di molto più nobile.
Ogni ingrediente è una pennellata di colore, mentre le creazioni artistiche sono i tasselli che compongo il puzzle finale raccontandoci la filosofia “dell’artista”. Ma quando uno chef può veramente definirsi un artista? Chi meglio dell’executive chef Eugenio Moschiano, originario della provincia di Avellino, presidente della delegazione APCI di Viterbo(Associazione Professionale Cuochi Italiani), 30 anni di esperienza in cucina e un nonno ristoratore, può rispondere a questo dilemma? Lui che ha conosciuto il lato più duro della ristorazione fin da piccolo, che nel ristorante di famiglia ha mosso i primi passi tra i tavoli e le stoviglie e nonostante abbia iniziato in tenera età a lavare i piatti ha saputo coltivare una smisurata passione per il mondo dell’enogastronomia.
Lo raggiungo nel suo bellissimo laboratorio, “La bottega degli chef” a Viterbo e tra una chiacchiera e l’altra provo a capire secondo lui quando uno cuoco possa effettivamente sentirsi un’artista arrivato. “Nella cucina c’è sempre qualcosa da imparare, qualcosa di nuovo da scoprire, non si arriva mai in realtà. Dall’esterno non si riesce certo a capire quanto sacrificio ci sia dietro ai nostri successi, io ho sacrificato il mio desiderio di farmi una famiglia per la mia professione. Fare lo chef non significa solo saper cucinare, ma visitare le aziende del territorio, conoscere la filosofia dei produttori, fare continuamente formazione, fare consulenze ai ristoratori, essere disposti a spostarsi spesso per lavoro. Non ci sono feste, weekend, compagnie”.
Una vita professionale fatta di grandi sacrifici, stagioni estive passate tra i fornelli dei migliori ristoranti del litorale laziale, oppure nelle cucine dei family hotel di alto livello in Trentino Alto Adige, e stagioni invernali trascorse nei resort di lusso, dove la professionalità non è certo un optional. Animo gentile, tanta volontà e grande umiltà hanno sicuramente permesso al professionista di distinguersi nel mondo del food e di diventare lo chef “dal cappello di platino” che è oggi. A questo punto però voglio capire se la sua concezione di cucina sia sempre la stessa o le molteplici esperienze, tra cui una in terra francese, abbiano acceso in lui una vocazione diversa rispetto ai suoi esordi. “Personalmente sono un estimatore della cucina mediterranea – mi racconta – ma negli ultimi anni mi sono specializzato nella valorizzazione dei prodotti del territorio.
Il mio sogno nel cassetto è quello di scrivere un libro proprio su alcuni prodotti del territorio in cui vivo, su piatti della tradizione rivisitati da raccontare e riprodurre. Vivendo ormai da anni nella Tuscia posso affermare di sentirmi fortunato perché il territorio offre veramente tanto in termini di eccellenze: patate, legumi, pesce, carni, olio e moltissimo altro”. Eccellenze! Tante le sigle create per definire un’eccellenza tipica di un territorio, le conosciamo ormai tutte, dop, doc, igp, ma spesso ci sfuggono invece concetti apparentemente molto più semplici come quello di prodotto artigianale, filiera chiusa o controllata che definiscono proprio le modalità di produzione di un’eccellenza e quindi la sua qualità o bontà. “La qualità di un prodotto in cucina è già un’ottima base di partenza- sottolinea – poi certo sta alle abili mani del cuoco valorizzarlo per creare emozioni i chi lo mangerà. La cucina può essere anche in un certo senso terapeutica, i momenti belli della vita sono quelli condivisi con gli affetti a tavola. Guardandomi un po’ intorno mi sono reso conto che spesso gli argomenti più frequenti che emergono delle conversazioni riguardano soprattutto il cibo e lo stare a tavola, proprio perché attraverso un piatto si comunicano emozioni”.
Durante la piacevole conversazione scopro che una delle attività che Moschiano porta avanti da anni è quella dell’insegnamente presso le scuole alberghiere e dopo aver quasi toccato con mano i sacrifici di una vita divisa tra pentole e fornelli lo interrogo sul futuro di questa professione e sulle nuove leve. “Negli ultimi anni la televisione ha decisamente acceso un faro sulla nostra professione – spiega- ma ha anche creato false aspettative tra le nuove leve. Prima di cucinare è necessario saper lavare bene i piatti e fare tanta gavetta. Oggi non bastano più nemmeno forse i 5 anni di studi all’alberghiero, infatti consiglio sempre ai miei studenti di fare almeno il triennio all’università per specializzarsi”. E Se fosse vero ciò che dice Colleen Wilcox che “L’insegnamento è il più grande atto di ottimismo” ? Allo chef l’ottimismo non manca ed è talmente fiducioso nel prossimo da voler aprire “La bottega degli chef” anche agli estimatori della cucina con corsi di natura professionale e amatoriale.
“La cucina va intesa come convivialità, passione e condivisione – dice- qual è il modo migliore per condividerla se non insegnarla?”.
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