I Campi Flegrei e i vini della terra ardente

È il vulcano più temuto d’Europa, le rare ma violentissime eruzioni hanno fatto conseguire ai Campi Flegrei la fama di essere uno dei dieci vulcani più pericolosi al mondo, insieme allo Yellowstone negli Stati Uniti e al Lago Toba in Indonesia. I Campi Flegrei si trovano a Nord ovest di Napoli, un’ immensa caldera costellata da saliscendi di crateri vulcanici che si estendono da Posillipo a Procida. Questa conformazione così peculiare gli ha conferito – con il beneplacito dei vulcanologi – il titolo di Supervulcano.

La caldera dei Campi Flegrei
I Campi Flegrei e i vini della terra ardente

Flegrei ha etimologia greca – Phlegrios, terra ardente – come greche erano le genti che qui approdarono, fondendosi con la cultura locale e dando vita alla civiltà elleno-latina, una delle più floride del vecchio continente. Sono un mistico anfiteatro all’aperto i Campi Flegrei, considerati “la diletta patria”, chiara testimonianza dell’amore che suscitarono in J. W. Goethe che così ne poetizzò: “Una terra col solo respiro delle pietre, deserta, con acque in ebollizione, coi resti di una storia disegnata nei vulcani spenti e semi spenti”.

Questo è un regno dove il mito e la leggenda hanno trovato supporto nella storia. L’Epica lo ha divinizzato, narrando storie di Titani, Giganti e battaglie di Ciclopi. E allora gli invincibili Giganti che combattono scagliando massi – anch’essi utopico retaggio ellenico -, divengono una suggestiva antropomorfizzazione del vulcano.

Un paesaggio quasi lunare quello dei Campi Flegrei, perfettamente descritto da Goethe

Virgilio narra del Lago d’Averno nel sesto libro dell’Eneide e il mistero riaffiora: i Latini vedevano il lago come l’entrata dell’Ade – Averno è il corrispondente romano dell’Ade greco. Ad alimentarne il culto, le esalazioni delle acque solfuree, che non permettevano la vita di uccelli ed altri animali nelle terre circostanti. È lì che l’eroico Enea doveva recarsi secondo lo scrittore latino. La roccia madre, quella che comunemente potremmo chiamare terroir, qui è giocoforza di matrice vulcanica: ceneri, lapilli, pomici, tufo grigio e giallo.

Veduta del Lago d’Averno.
I Campi Flegrei e i vini

Se il vino è per sua natura la sintesi tangibile – e “deglutibile” direi io – di una terra e delle civiltà che l’hanno attraversata, possiamo immaginare da subito l’unicità dei vini dei Campi Flegrei. Sono vini sui crateri, quelli flegrei, che traggono dal fosforo, dal magnesio e dallo zolfo la forza per resistere al tempo; caratteristica una stesura gustativa elegante e mai pacchiana, tipica dei vini vulcanici, che qui la litologia racconta nella loro unicità con minerali tipici come la dimorfite, la marialite, la misenite e la voltaite.

I colori tipici dei minerali contenuti nelle rocce che compongono il terreno dei Campi Flegrei

I vitigni più utilizzati in questa zona sono il Piedirosso – Pér ‘e Palummo, piede di colombo in napoletano – e la Falanghina. Va sottolineato però un elemento peculiare dei Campi Flegrei: i vini sono tratti da vigneti a piede franco, ancestrale strumento di lettura di un territorio, più sensibile e veritiero nella rievocazione del luogo dell’ormai diffuso portainnesto americano.

Certo, i territori che possono permettersi di non adottare tale forzata precauzione sono rari, perlopiù vulcanici, sabbiosi o dalle altitudini elevate; in quest’area la fillossera non si è mai manifestata, grazie alla tessitura e alla natura di questi terreni magmatici. Qui c’è la rara possibilità di assaggiare un vino “integro”, così come sarebbe stato prima della dilapidazione da parte del famigerato afide in tutto il resto d’Europa.

Vigneti che si affacciano sulla costa dei Campi Flegrei
I Campi Flegrei, i vini di Cantine Astroni

Un territorio dalla viticoltura intensa quello dei Campi Flegrei, rispetto al quale ritengo che la miglior espressione sia costituita comunque dai bianchi, dalla Falanghina in modo particolare. Ne sono prova inequivocabile l’inappuntabile Le Cigliate di Cantina Farro; o l’azienda Astroni, con una Falanghina capace di distinguersi tra gli oltre 120 vini in degustazione al Volcanic Wine di Orvieto; o ancora IV Miglio, con l’emblematico Cru Macchia Bianco – il 2007 assaggiato pochi giorni fa è in grado di esorcizzare ogni preconcetto su questo vitigno.

Sono prodotti lontani un viaggio astrale dalle anoressiche e modaiole falanghine super solfitate, capaci di stordire un asino col solo potere della molecola odorosa e a cui ci ha abituato un’industria a cavallo di mode come sempre capaci di desertificare la cultura. Con il passar del tempo, le falanghine dei Campi Flegrei acquisiscono complessità grazie all’affinamento.

Sapienti mani al lavoro con grappoli di Falanghina della cantina Astroni
I Campi Flegrei ed i vini

In questa zona acciaio e bottiglia sono la forgia del liquido in questione, più raro il legno. La struttura è elegante e aristocratica, mai immediata: non colpiscono per l’ostentazione floreale o le note fruttose; sono vini seri dai sentori maturi; lo spettro olfattivo si dona lentamente, bisogna attenderli, avere pazienza – come per tutti i grandi vini. La sequenza olfattiva tornerà inevitabilmente a sentori lavici, di pietra focaia; in bocca manterranno la loro verticalità basandosi su una dorsale lunga e persistente.

Caldi e in grado di sostenere con tutta tranquillità oltre al tradizionale pesce, anche piatti a base di carne bianca o un formaggio stagionato, come il Caciocavallo dei Monti Alburni; ma il costume locale li vede come perfetti alleati della pizza napoletana. La loro celebrazione ultima poi è il ritorno gustativo, la nota di calore dopo la deglutizione, il loro fiato, citando il Maestro, prova inequivocabile della Terra Ardente che li ha generati!

di Raffaele Marini

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