Storie da Mangiare

Il Tacchino del Ringraziamento

di Fabrizio Mangoni

Mia nonna era una grande cuoca. Non voglio scomodare la Madeleine di Proust, per descrivere come il ricordo dei suoi piatti riaccende la memoria dell’infanzia e di un tempo felice e pieno di speranze. I suoi pezzi forti erano la Torta di mele con la cannella, delle frittate piene di sapori, di verdure e di formaggi, e l’indimenticabile “Tacchino ripieno del Ringraziamento”, legato ad una vaga memoria di un passato americano della famiglia. Il più memorabile tacchino che la Nonna abbia mai fatto, fu preparato in occasione della visita di un lontano zio d’America. Io era già adulto e mia nonna aveva un’età indefinita, ma era sempre energica, molto presente a sé stessa e ancora gran cuoca.

Ricetta Tacchino ripieno con castagne

Il ripieno del tacchino, che mia nonna preparava, era a base di castagne. Diceva che c’era chi lo faceva con le prugne o con le albicocche, ma che erano scelte fuori dalla tradizione. Già, ma che cosa è la tradizione? Quando migliaia di famiglie fanno il ripieno con le albicocche, hanno creato una tradizione. E da qui si aprono questioni filosofiche di non poco conto; il pensiero va ad Elémire Zolla, secondo cui la tradizione si lega al concetto di autorità. E mia nonna era un’autorità riconosciuta, per cui il Tacchino va riempito con le castagne, ci piaccia o meno!

Il giorno dell’arrivo dello zio che aveva fatto fortuna in America e che mai avevamo conosciuto si decise di accoglierlo con un grande pranzo di famiglia. Si era deciso di ospitarlo a casa della Nonna, sia perché obbiettivamente più grande e anche più rappresentativa, sia per il fatto che da ragazzi, una volta, si erano conosciuti. Il rischio di apparire, anche con le nostre case dignitose, ma piccole e disordinate dei “pezzenti” era molto forte. Allora vivevo da solo, con in casa tre nipotini, che avevano perso in giovanissima età i loro genitori. Era una storia tristissima, dove la storia neanche c’era: che fine avessero fatto nessuno lo sapeva, solo che un giorno erano letteralmente spariti, forse fuggiti in un paese lontano, forse inseguiti da qualche debito, o minacciati da qualche vecchia volpe del paese. Di fatto avevano lasciato tre piccolini abbandonati in giovanissima età. Che potevo fare? Lasciarli soli? Li accolsi nella mia casa.

Non è stato facile per me che ho avuto una vita un po’ sfortunata. I miei genitori avevano dissipato tutte le loro risorse, che poi erano le risorse di famiglia di mia madre. Il nonno aveva fatto fortuna nell’edilizia durante il boom di crescita della città. Alla sua morte i figli ne avevano ereditato la fortuna, regolarmente divisa in parte uguali. Mio zio, che non si era sposato, nuotava letteralmente nell’oro. E si vagheggiava di forzieri pieni di una incredibile collezione di monete. Mia madre si era innamorata di un artista, un suonatore di tromba. Ne era diventata una sorta di impresaria, perdendo progressivamente ogni ricchezza. Da mio padre avevo ereditato un senso artistico, la propensione al fallimento di ogni iniziativa, ma anche una serenità e una generosità, che mi avevano portato ad accogliere in casa tre nipotini discoli. La loro presenza aveva allontanato la data del matrimonio con la mia amata fidanzata, ma anche rallegrato la mia vita di ogni giorno. I pranzi della Nonna risolvevano, abbastanza spesso, i problemi di budget della nostra famigliola.

Le castagne bollite, sbucciate e spezzettare, venivano messe da parte, mentre cominciava il lavaggio del tacchino nell’acqua fredda, l’eliminazione di resti di piume, e la strofinatura delle carni con il limone. Poi la Nonna continuava la preparazione del ripieno. In una padella faceva rinvenire nel burro la cipolla e il sedano tritati, e a un certo punto faceva sfumare un bel bicchiere di vino bianco secco.  Alla fine aggiungeva dadini di mollica di pane raffermo, le castagne, il prezzemolo, il timo, la maggiorana, sale e pepe. Mescolava il tutto e dopo un po’ lo levava dal fuoco e metteva il ripieno a raffreddare.

A casa della Nonna aspettavamo l’arrivo dello zio. Arrivò con una limousine presa a noleggio con autista compreso. La cosa fu notata dall’intero quartiere, anche perché quasi sotto casa, cominciò a strombazzare il clacson, che eseguiva il motivetto della marcia di Disney.

Sulla porta la nonna ci presentò lo zio: “John” ripeteva stringendo la mano a me e ai tre nipotini.  Una volta in casa lo zio aprì la borsa dei regali: uno scialle di lana intrecciata di fili d’oro per mia nonna, che non amava i regali da vecchia, una sacca di mazze da golf per me, che non gioco a golf, e un gioco di corsa dei cavalli meccanica per i nipotini, che furono gli unici contenti, ma si sa ai bambini è facile fare regali.

A questo punto c’era la cerimonia del riempimento del tacchino. Devo dire che sin da piccolo era una scena per me impressionante; tutto quel ripieno che veniva infilato dalle due aperture di quel pollo mostruosamente grande e la chirurgica cucitura successiva, mi faceva impressione e confesso che non ho mai assistito a quella scena. A questo punto il tacchino, coperto di una garza impregnata di olio, per contrastare la tendenza della carne a seccarsi, avvolto da rametti di rosmarino legati con lo spago, spariva nel forno.

Lo zio si rivelò da subito petulante e noioso. Metteva continuamente a confronto le nostre misere vite, con la sua fortunata condizione. Con me fu subito inquisitorio: «Che lavoro fai? Come sbarchi il lunario?» Fu difficile spiegargli che mi arrangiavo, ma che ero abbastanza felice della mia vita. Certo faticosa e piena di difficoltà, ma comunque felice. Di fronte alla sua insistenza sul mio lavoro me la cavai con una risposta che lo zittì definitivamente: «Aiuto il mio amico Pippo.»  «E cosa fa Pippo?» mi chiese. «È disoccupato» risposi.

Ritratto di Signora con tacchino e bastone zoomorfo. Primi anni del ‘900. Ricostruzione immaginaria di Fabrizio Mangoni.

Ai ragazzini domandò dei voti a scuola. Restò poco contento delle risposte e soprattutto del fatto che da un po’ di tempo si appassionavano alla natura, facendo campeggi ed escursioni nei boschi della zona, inventando fantastiche avventure, attività che lui considerava un’assoluta perdita di tempo. Consigliava ai tre ragazzini di mettere le loro paghette in un bel libretto di risparmio, come aveva fatto lui da piccolo. Insomma uno zio noioso, petulante e un po’ fanfarone. Era molto in carne, e aveva poi una voce sgradevole acuta e gracchiante tanto che uno dei ragazzini fece la battuta: «Non sapevamo di avere uno zio tacchino!»

Dopo circa un’ora, il tacchino veniva bagnato col vino e rimesso in forno; di tanto in tanto mia Nonna lo bagnava col liquido di cottura. Alla fine levava la garza, e lasciava diventare croccante al forno la pelle del tacchino. La nonna aveva sempre pronta della carta argentata per evitare che la pelle delle cosce si bruciasse.

Lo zio che era stanco del viaggio andò a dormire. Eravamo terrorizzati per il pranzo del giorno dopo, quando sarebbero venuti anche la mia fidanzata, mio zio ricco e il cugino Gastone, con i suoi capelli ondulati, cui ogni cosa andava bene e anche il mio amico Pippo. Chissà quali critiche avrebbe riversato su di loro! La nonna ci congedò tranquillizzandoci: «Non vi preoccupate, ci parlo io e domani a pranzo non dirà una parola, né farà una critica».

La presentazione del monumentale tacchino in tavola era il momento culminante con il nostro applauso che ripagava la Nonna dei suoi sforzi. Era sempre accompagnato da patate al forno e da una crema di mirtilli, particolarmente delicata. Ma la vera delizia era una salsetta, basata sul restringimento di un brodo dove era stato messo il collo del tacchino, il cuore e i fegatini. Una volta filtrata la salsa, la Nonna ci aggiungeva come addensante un cucchiaino di farina.  

Eravamo tutti seduti a tavola, ma lo zio John non era ancora tornato. La nonna aveva annunciato che era uscito presto per visitare le bellezze del paese, e si stupiva che non fosse ancora tra noi. D’altra parte il tacchino era pronto, quindi la Nonna annunciò: «Se lo zio viene, bene! Intanto noi ora mangiamo!» Quella volta il tacchino ripieno era venuto veramente buono. La conversazione tra noi fu raramente piacevole.

La torta di mele fu servita mentre tutti giocavamo alla corsa dei cavalli con QUI, QUO e QUA. Io e PAPERINA ci appartammo per dirci frasi romantiche. PIPPO e il cugino GASTONE si misero a parlare di lotterie e di numeri da giocare, mentre lo zio PAPERONE si addormentò sul suo cuscino imbottito di dollari. Fu felice persino PLUTO, il cane di PIPPO, cui NONNA PAPERA, sparecchiando, gettò un osso con queste emblematiche parole: «Tieni è un osso americano». Non rivedemmo più lo zio d’America e pensammo che, a volte, anche i peggiori parenti possono risultare buonissimi.

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Fabrizio Mangoni

Fabrizio Mangoni è architetto e docente di Urbanistica presso l’Università Federico II di Napoli. Gastronomo, esperto di dolci (sua la teoria che compara i caratteri umani ai dolci), da anni si occupa di cucina ed enogastronomia. Autore e conduttore di programmi televisivi tra cui si ricordano: “Di che pasta sei?” con Raffaella Carrà per Rai Due; “Scrupoli”, con Enza Sampò, sempre su Rai Due.

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