Il vino naturale è il mio Gange.

Perché negarlo, il vino naturale è il mio Gange, il mio fiume sacro da 15 anni o forse più; chi mi conosce lo sa. E a ridosso del RAW, la fiera dei vini naturali più importante d’Europa, mi sembra giusto poterne discutere. “Noi siamo il vino e il vino siamo noi”: non è forse la naturalità che cerchiamo nelle persone che ci circondano? Di conseguenza, se il vino è civiltà – e lo è! – vale anche per esso la proprietà transitiva. Una legge non scritta – e questo sia chiaro – li vuole figli di un territorio ineluttabilmente vivo, protetto da contadini che sono custodi e mai artisti, propensi a far si che i vini avvengano più che si producano; ma questo, paradossalmente, richiede una ferma volontà da parte dei produttori. L’agricoltura è biologica in buona parte dei casi, anche se non mancano altre forme di agricoltura naturale: quantistica come per l’azienda Quantico sull’Etna, o biotica come per Sacra Familia in Oltrepò Pavese. Ma di certo la più famosa nel mondo del vino naturale è la viticoltura biodinamica. Nicolas Joly nella Loira, con il suo Chenin Blanc, ne è il padre putativo.

Nicolas Joly, precursore in Europa della biodinamica in vigna, al lavoro nella sua Coulée de Serrant.

Il vino naturale è il mio Gange

L’approccio agricolo naturale, in tutte le sue forme, mantiene il suolo vivo, ricco di microelementi e se è vero che prima di ogni altra cosa il vino è “genio del territorio”, la possibilità di ricevere dati da una terra viva è nettamente superiore a quella di territori deceduti sotto i bombardamenti di fitosanitari, imposti da logiche sistemiche. La Champagne ne è stata l’epitome: i rifiuti di Parigi venivano utilizzati per “concimare” i vigneti, i trattamenti sistemici ed gli erbicidi venivano irrorati per via area; qui il lavoro di resistenza per chi fa naturale è stato davvero duro. Esempio principe di questa perseveranza è Marie Courtin, piccola produttrice di Champagne dall’approccio pauperista. “La naturalità è intrinseca nel vino; il vino industriale è una contraddizione in termini”, recitava l’augusto parere di Mario Soldati già alla fine degli anni ’60. Il vino è in natura quindi, anche se i detrattori di questo approccio sono pronti a sguainare la spada del vino che diventa aceto, assecondando il suo processo di naturale vitalità. Quello che però si vuole evidenziare con l’espressione “vino naturale” è l’opera dell’uomo, realizzata affiancando o assecondando la natura.

Sicuramente il termine “vino naturale” da solo non basta, fluttuante come è tra mode e strumentalizzazioni personalistiche; la dicitura “vino da uve biologiche” ad esempio, non mette dei paletti a quella che è la vinificazione in cantina. Di conseguenza, un vino certificato biologico non è necessariamente un vino naturale. Per questo sono in molti a non voler entrare in compartimenti con definizioni stagne e a preferire semplicemente il nome di viticultura naturale per il loro operato. Valentini e il suo Trebbiano d’Abruzzo ne sono l’emblema. Negli anni sono nate delle forme di aggregazione, divenute poi vere e proprie associazioni, con l’intento di fissare dei punti ineluttabili su quelli che sono i parametri in vigna e soprattutto in cantina: Renaissance, Vinnatur e Viniveri ne sono alcuni esempi emblematici.

La loro linea di condotta è chiara: soltanto zolfo e rame in vigna (Angiolino Maule cerca di sostituirli con tisane, insetti e latto-fermenti) e nessun trattamento di sintesi; in cantina dosi di solforosa bassissime e nessun lievito selezionato – fermentazioni autogestite le chiamo io – con chiarifiche e filtrazioni minime o inesistenti. D’altronde l’uso di lieviti selezionati comporta per definizione la perdita del patrimonio olfattivo di pertinenza di un vitigno e di un territorio e la compresenza di lieviti selezionati e autoctoni in cantina favorirebbe la cannibalizzazione dei primi a scapito dei secondi. Di fronte ad un vino naturale, inutile dirlo, i parametri di degustazione saltano: sono soventi macerazioni e conseguenti fermentazioni sulle bucce per i bianchi, spesso condotte in anfore georgiane – vedi Josko Gravner -, che doneranno dei vini “ossidati”, i cosiddetti orange wine, dal profilo aromatico inteso e dai tannini decisi; i rossi sono accompagnati spesso, molto spesso, da una volatile di difficile consenso per il degustatore inesperto.

Botti georgiane interrate nella cantina di Josko Gravner.

Se il vino è per sua natura elitario, possiamo sicuramente affermare che qui “l’elitarismo” si colloca all’ennesima potenza. I vini naturali affascinano e il loro gusto atavico è in grado di arrivare in profondità, toccando corde ormai sopite nel nostro limbo degustativo. Tant’è che i vini naturali sono diventati una vera moda e si sa, le mode non sono quasi mai eticamente pulite. C’è chi, pur di sfruttare la scia, si lancia nella produzione di due linee, una convenzionale, l’altra naturale, da vendere a seconda dell’occorrenza; o chi si ostina a realizzare vini spacciando per caratteristiche dei difetti inaccettabili. Sul vino, e su quello naturale ancor di più, mancano delle garanzie certe di tutela e di chiarezza: partendo dal presupposto che il vino è un alimento, quello che da più parti si dibatte è la proposta di un’etichetta che esponga tutti gli ingredienti utilizzati.

Ne ha anticipato l’urgenza l’autorevole rivista Porthos in tempi ancora non sospetti, e ad essa si sono aggiunti professionisti del settore come Gustodivino. Attendiamo con ansia che si faccia qualcosa di eminente in tal senso… Per ora buona bevuta e per questa volta, lasciate i criteri d’assaggio lontano dal calice e risvegliate i sensi. Quelli più ancestrali!

di Raffaele Marini

credits photo: Valentini, Josko Gravner, Nicolas Joly.

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