E finalmente la riscossa del Lambrusco d’autore. Tempo fa veniva definito la Coca Cola d’uva. Il successo quindi non gli è mai mancato, anche se a dirla con sincerità, non c’è molto onore nell’associare un vino alla nota bevanda scura. Bisogna dire però che il termine di paragone regge per ciò che riguarda le vendite: il Lambrusco, con i suoi 180 milioni di bottiglie, è il vino più venduto al mondo e primo nella grande distribuzione. Purtroppo, almeno generalmente, questo non è stato sinonimo di qualità: chi frequenta il mondo del vino e in particolare “Enolandia”, sa che spesso il successo è inversamente proporzionale alla qualità del vino prodotto.
Ovviamente regola non sempre valida anche questa, ma anche un vecchio adagio popolare recita chiaro e tondo che “nella botte piccola c’è il vino buono”, quasi a sancire che sono i produttori piccoli o di nicchia a dare i prodotti più originali. E i piccoli produttori, pronti a valorizzare questo vino per la sua qualità, non mancano; ce lo conferma Sandro Bellei, che gli ha dedicato il suo ultimo libro “La rivincita del lambrusco”, sintesi e tesi di quanto appena affermato. Questo fluido è stato musa ispiratrice per Guccini, che lo chiamava “il nettare degli dei”, portandolo con sé ad ogni concerto; Pavarotti lo utilizzava per schiarirsi l’ugola e, se questo non bastasse, il parere intramontabile di Luigi Veronelli lo sanciva come il vino dell’avvenire.
Arrigo Levi infine, provò a denudarlo della veste dimessa che lo vuole da sempre vino del popolo e lo elevò nel novero della nobiltà, definendolo “lo Champagne rosso”. Nonostante questo però, al Lambrusco sembra rimanere attaccata la nomea indelebile di vino di scarsa qualità, contestandogli l’entrata nella élite dei vini prestigiosi. D’altronde il Lambrusco, che sia Grasparossa, Sorbara o Salamino, è un vino da bere per l’immediata e piacevole freschezza: gode di una dorsale acida che gli consente abbinamenti classici, come pane e salame o quelli più arditi, come lo sdoganamento della regola fissa del bianco affiancato al pesce, grazie alla sua bollicina tenue.
Tra i “classici” è doveroso citare Manicardi e Pedroni, con il suo Lambrusco di Sorbara spontaneo e intenso, tappa obbligata di avvicinamento al mondo del Lambrusco. Non mancano le versioni “naturali”, come Tenuta Piccola, con i suoi Lambrusco fatti di polpa e intensità, o Crocizia, che potrebbe essere annoverato tra i vini di montagna, visto che le sue vigne arrivano a 500mt slm. Tenuta Pederzana invece,coltiva – e per alcuni produce – il miglior Grasparossa al mondo. E per chi pensa che il Lambrusco sia un vino stupido e poco interessante, un po’ fuori dal circuito glamour, potremmo indurre l’abiura facendogli assaggiare qualche Metodo Ancestrale di Bellei, azienda che utilizza per i suoi Lambrusco il metodo Champenois, di cui sono vecchi maestri anche Chiarli e Cavacchioli.
Certo, la rifermentazione in bottiglia è rischiosa, le fecce restano lì e spesso inficiano lo spettro olfattivo, ma nei casi ben riusciti, altro che vinello il Lambrusco! Con questa tecnica dimenticatevi il Lambrusco da aperitivo: la rifermentazione in bottiglia esaurisce ogni zucchero e di conseguenza ogni morbidezza. Ne deriva un vino che sa fare un’estrema pulizia in bocca, tornando quindi al suo ruolo essenziale: quello di accompagnare il cibo; e allora, alla voce note gustative, troverete appuntato “glu, glu, glu”. Tra i produttori poi, c’è chi rischia con una presa di posizione ancora più estrema, come Saetti: i suoi Lambrusco, oltre a rifermentare in bottiglia, non vedono solfiti aggiunti neanche lontanamente. Ma il mio più chiaro e nitido ricordo di Lambrusco risiede nella bontà della bollicina di Vittorio Graziano: “Il premio per i miei vini? Le tre Zolle, altro che i tre bicchieri…”.
Per chiudere non poteva mancare il Mahatma di questo semplice e nobile vino: Camillo Donati, capace di accettare i suoi vini anche quando la rifermentazione in bottiglia decide di non avvenire… Insomma, che l’abbinamento con il vitigno più vecchio d’Italia sia una rosetta con la mortadella, una fettuccina col ragù alla bolognese o l’inaspettato sushi, evitate le – millantanti – etichette titolate:
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