Enrico Cuccia diceva che le azioni non si contano, si pesano. Parafrasandolo, noi del libro Ricette narranti e racconti di cuoche di Fabrizio Mangoni (Liguori editore) possiamo dire che le sue pagine non si contano, si pesano. Si perché è un libricino di 88 pagine, in ognuna delle quali è racchiuso un tesoro di cultura, storia, gusto e raffinatezza che solo apparentemente ci parlano di cucina.
Mangoni ha raccolto qui alcuni dei suoi scritti per la rivista on line Moondo. Ciò che ne esce è appunto, un buon piatto da mangiare (leggere) con gusto.
Vogliamo parlare degli spaghetti al pomodoro, che quasi chiunque può preparare? Nella sua semplicità scrive Mangoni – “è un’opera letteraria al pari di un racconto, di un romanzo, di una poesia”. E infatti l’autore parte da qui per raccontarci la storia del pomodoro, che un tempo era piccolo e giallo (da cui il nome: pomo d’oro), portandoci “nei terrazzi del Sud pieni di sole” e “famiglie riunite che tappano bottiglie che restituiranno il sapore e il ritratto di quei paesaggi che l’hanno generato”.
I cultori della buona tavola stiano appagati: per ogni piatto narrato c’è la ricetta Salvatore Di Meo, altra firma di Moondo.
Magistrale è il racconto della salsa genovese, notissima a Napoli e sconosciuta a Genova. Qui Mangoni usa l’archeologia per spiegarci come tanta prelibatezza sia arrivata sulle nostre tavole. Con la meticolosità e la cultura di un archeologo comincia con i Tria Ianuensis, una pasta di cui parla il medico arabo Ibn Butlan vissuto nella prima metà del XI secolo, per arrivare agli Angioini prima e agli Aragonesi dopo. Ricostruendo da piccoli frammenti, studiando i libri antichi ci racconta come Genova ad un certo punto diventi monopolista per tutto il Mediterraneo del commercio della pasta. E così i Tria diventano genovesi, “come dire pasta di Gragnano”.
Indicativo della vita sociale ed economica è la storia del timballo, che fa su e giù tra la Francia (timbale in francese vuol dire tamburo, data la forma della pietanza) e Napoli. Portato dai cuochi francesi dei Borbone ma rimaneggiato nella città partenopea con l’aggiunta – ovvia – dei maccheroni . Di questa nuova versione si innamorano i francesi che inventano il timballo parigino , ma poi torna in Italia con il cuoco dei Savoia, Giovanni Vialardi e ce lo ritroviamo a Napoli con il nome Flammand preparato dallo chef Monsù Gerardo. Giri e contro giri che stanno a significare epoche storiche che cambiano, costumi che mutano, equilibri politici e di governo che fanno giravolte.
Giovanni Boccaccio ambienta a Napoli una sua novella e in una sua lettera del 1339 racconta che per la nascita di un bambino, alla puerpera era stato regalato un polpo per farne brodo. ‘o brodo ‘e purpo, ovvero quello che da sempre è il cibo da strada per eccellenza nel capoluogo campano. “Ancora oggi – scrive Mangoni – nella Pignasecca a Porta Capuna il brodo di polpo riscalda i napoletani accompagnati dall’invito : bevete! Questo è il brodo di mare!” e come le onde del mare vanno e vengono, così questo piatto si colora di giallo quando compare sulle tavole degli aristocratici condito con lo zafferano, o di rosso, con la salsa di pomodoro (assolto dal sospetto di essere velenoso) dei pescatori di Santa Lucia che lo serviranno nei pignatielli di terracotta.
La seconda parte del libro è dedicata alle donne che per prime nella storia hanno scritto ricettari di cucina. Quasi tutti appannaggio esclusivo di uomini, anche se in cucina, poi, le donne ci sono sempre state e “l’evoluzione della cultura gastronomia – osserva Mangoni – deriva da migliaia di piccoli cambiamenti , innovazioni, errori da loro apportati che hanno generato nuove pietanze”. E’ nella cultura protestante che troviamo un maggior numero di libri di cucina scritti da donne perciò troviamo le inglesi Hannah Wolley , Mary Kettilby ,Eliza Smith e Hannah Glasse, vissute nel ‘700 che affiancano le ricette a consigli medici o sulla cura dei figli. Sono spesso donne del popolo che scrivono per l’aristocrazia e i benestanti.
Si rivolge invece al popolo la francese Madame Mérigot che a cinque anni dalla rivoluzione scrive La cuoca repubblicana. Il popolo francese era affamato, le principali derrate venivano destinate all’esercito che doveva difendere la nuova repubblica. E Madame Mérigot si rivolge proprio a questo pubblico con piatti semplici e nutrienti che qualsiasi massaia poteva cucinare.
Non sappiamo molto di lei, ma quel che è certo è che rivaluta le patate (guardate con sospetto perché ritenute velenose) con una ottima ricetta.
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