Si può raccontare la storia d’Italia con un formaggino?
Senza timore di essere smentito, assolutamente sì.
E nel caso doveste pensare che un brand sia solamente il più o meno indovinato marchio di un prodotto, ebbene vi sbagliate, non è così, o perlomeno non è sempre stato così.
C’è stato un tempo in cui il marchio di un prodotto era spesso un nome, anzi, un cognome e quel cognome era la storia di una famiglia, sintesi identitaria di un’avventura iniziata da un precursore caparbio e visionario, proseguita da generazioni dedite all’impresa e diventata nel tempo non più storia puramente familiare, ma parte di un grande affresco di storia economica, sociale e culturale italiana.
I Locatelli sono una di queste famiglie e la loro è una di queste di queste storie.
Inutile girarci intorno, il titolo dice già tutto: oggi parliamo del formaggino Mio, prodotto iconico della Locatelli ben saldo l’immaginario d’intere generazioni.
Per raccontare come questo sia successo, dobbiamo però fare almeno due passi indietro.
Il 1860 è un anno importante per la storia italiana.
Il 17 marzo Vittorio Emanuele II proclama il Regno d’Italia, primo esito formale del percorso risorgimentale che dovrà attendere ancora dieci anni per vedere Roma capitale e la fine della Prima Guerra Mondiale per l’unità con le terre irredente.
Il 1860 è un anno importante anche per i Locatelli di Ballabio, paesino prealpino della Valsassina in provincia di Lecco con una vocazione casearia che è un vero genius loci, un destino irrinunciabile, visto che proprio da Ballabio prende il via non solo la storia dei Locatelli ma anche, qualche anno più tardi, quella dei Galbani e ancora dopo, nei primi del novecento e ad appena una cinquantina di chilometri di distanza, a Melzo, quella degli Invernizzi.
E i Locatelli, i Galbani e gli Invernizzi sono tre famiglie con parentele in comune prima ancora che tre aziende, e tre brand, le cui vicende societarie s’incroceranno in vario modo e che saranno protagoniste assolute dell’industria alimentare italiana.
Ebbene nella vocazione casearia di Ballabio e della sua zona, Mattia Locatelli trova la sua personale di vocazione che non è nella produzione, ma nella stagionatura in grotta dei prodotti locali, specialmente taleggio e gorgonzola, e nella loro successiva commercializzazione.
Notizie che affondano nel tempo, ricostruite soprattutto grazie a una memorialistica familiare negli anni inevitabilmente indebolita, datano proprio al 1860 l’inizio dell’attività di Locatelli.
Fatto è, comunque, che Mattia e il figlio Giovanni hanno una marcia in più e non solo commercializzano con successo i loro prodotti, ma da subito guardano all’estero e aprono filiali commerciali a Londra, nel 1885, e persino a Buenos Aires, nel 1897, raro esempio di internazionalizzazione ante litteram di un’azienda familiare italiana.
Il successo è meritato, la commercializzazione va bene, nel 1892 la sede dell’azienda viene spostata a Lecco, nel 1902 la prima piccola sede produttiva impiantata a Robbio avrà inizialmente vicende alterne, ma segna la strada di quello che sarà lo sviluppo dell’attività industriale che maturerà nel corso degli anni venti.
Nel frattempo, alla morte di Giovanni nel 1904, la terza generazione dei Locatelli prende in mano l’azienda e la porterà alla fortuna commerciale, sia in Italia e sia ampliando la vocazione ai mercati esteri, quello nord americano in particolare.
Ai fini del nostro racconto, la data di snodo è il 1936, altro anno non da poco nella storia italiana, l’anno che vede finire la guerra d’Etiopia e le conseguenti inique sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni.
Ebbene è proprio nel 1936 che nello stabilimento di Robbio, la Locatelli inizia la produzione in serie del formaggino Mio, arrivando però seconda perché la Galbani già nel 1925 aveva iniziato a produrre scatolette di porzioni senza crosta, formaggini appunto.
Sin dall’esordio il formaggino Mio arriva sul mercato con le idee chiare e si caratterizza per una precisa individuazione del mercato di riferimento, come una forte vocazione pubblicitaria lo presenta sin dall’esordio: il formaggino dei bambini.
Con i bambini il formaggino Mio inizia a parlare da subito adottando, oltre alla pubblicità che in effetti parla ai genitori per convincerli all’acquisto, uno strumento straordinario della comunicazione del novecento, in quegli anni già molto usato dall’industria alimentare: le figurine.
Una scelta, quella delle figurine, che caratterizzerà tutta la storia pubblicitaria del formaggino Mio e di cui troviamo traccia già nel 1936 con l’album didattico – perché almeno fino a tutto gli anni settanta le figurine non solo dovevano divertire e far giocare, ma anche insegnare – Il mio zoo, brandizzato in quarta di copertina con l’immagine della confezione del formaggino.
Gli anni quaranta passano con la tempesta della guerra, mangiare in tempo di bombe e restrizioni non è così scontato e non lo sarà neanche negli anni immediatamente a seguire, quelli del Piano Marshall e della Ricostruzione, quando in tanti faticano a mettere insieme pasti dignitosi, e se è vero che nel 1949 troviamo una serie di figurine Mio dedicate al calcio, che si appresta a diventare lo sport più popolare, in questi anni la cifra pubblicitaria scelta dalla Locatelli è quella della salute.
La pubblicità del 1951 lo dice senza possibilità di equivoci: nel Formaggino Mio vengono scientificamente immesse le vitamine che mancano al latte e che invece sono proprie della carne, operazione condotta grazie a una collaborazione con la multinazionale farmaceutica Roche e che ne motiverà al mercato il prezzo superiore alla media.
Nel caso doveste sorridere per quella che con il senno di oggi può sembrare un’ingenuità pubblicitaria, non fatelo.
Nel 1950 un chilo di carne costava 800 lire.
Con 20 lire si prendeva il tram, con 30 lire una tazzina di caffè al bar, con 100 lire si poteva andare al cinema, una bicicletta costava circa 20.000 lire.
Poco? Non proprio se pensate che un muratore guadagnava circa 15.000 lire al mese, un operaio tra le 20 e le 30.000 mila, un impiegato tra le 35 e le 45.000 lire al mese e che il 42% degli italiani lavorava in agricoltura.
Numeri che rendono chiaro come il mangiare, il far mangiare in maniera sana e nutriente i figli fosse preoccupazione vera di quei genitori usciti dalla guerra e la cui aspirazione massima era di vedere i propri bambini con i volti tondi, floridi, divertenti e ben nutriti che nel 1950 Gino Boccasile, tra i più grandi illustratori italiani, disegna per la pubblicità del Formaggino Mio.
E ancora qualche anno dopo, nel 1954, un’indagine Doxa sulle abitudini alimentari degli italiani rileverà che il 35% degli italiani ritiene inadeguata la propria dieta per mancanza di carne e il 25% ritiene di seguire un regime alimentare poco nutriente.
Gli anni cinquanta sono sostanzialmente questi e il cruccio del mangiare finirà solo nel decennio successivo.
Non è certo un caso la pubblicità del 1952, che ci mostra una bambina che al risveglio, pregando a mani giunte, si rivolge in presa diretta al Signore al quale chiede …e fa che la mamma mia dia anche oggi il formaggino Mio, ben inteso il formaggino vitaminizzato come sottolineato a piè di pagina.
Ed è fedele raffigurazione del suo tempo anche la pubblicità del 1953 dove, con stilemi estetici di chiara impronta americana perché l’America è l’icona del benessere e della modernità, una giovane coppia alle prese con le prime pappe del bambino fa da sfondo a un pay off diretto, asciutto, inequivocabile e avvisa: si tratta della salute del nostro bambino e gli diamo il formaggino Mio, prodotto serio e sicuro.
I motivi della scelta sono messi bene in chiaro: il formaggino Mio è omogeneizzato, reso cioè di totale rapida digeribilità attraverso la minutissima suddivisione dei globuli di grasso, inoltre è controllato dal Reparto Vitamine della Casa Roche e infine mette a Vostra disposizione gli attestati degli Illustri Medici che lo hanno esperimentato.
Nel caso poi non bastasse c’è anche il Grande Concorso Locatelli con i suoi premi sicuri, cosa che non guasta mai.
Nel 1959, dopo una fugace apparizione a metà del decennio dell’omologo formaggino Tuo destinato agli adulti, il prodotto spinge sull’acceleratore; siamo in pieno boom economico e la pubblicità ci racconta che il Mio, rinnovato nel gusto e nel sapore e sempre sano e vitaminizzato, è ormai diventato il formaggino per tutti, bambini, adulti e vecchi.
Nel frattempo il formaggino Mio ha rilanciato in grande stile la comunicazione attraverso le figurine, una vocazione che ne caratterizzerà almeno altri quindici anni di pubblicità perché, non dimentichiamolo, in quegli anni le figurine erano oggetto di gioco e scambio vorticoso e occupavano mattine e pomeriggi interi di bambini che incredibilmente crescevano con poca televisione e senza elettronica e digitale, e crescevano anche bene.
La prima serie delle figurine animate prismatiche, di derivazione americana e che cambiavano inquadratura al movimento, è del 1957: ogni confezione di formaggino una figurina in regalo, 56 serie tematiche le più disparate – dai fiori al cinema, dal circo ai pirati, dallo spazio agli sceriffi – per un totale di circa 444 soggetti, prodotte dalla Vari-Vue di Mount Vernon nello Stato di New York che ne deteneva il brevetto, e poi anche dalla Movicolor di Milano.
Queste figurine saranno diffuse sino al 1965 e, tra le 56 serie prodotte, ben 9 saranno realizzate su disegni di un grande artista dell’immaginario, Benito Jacovitti.
Le novità pubblicitarie degli anni sessanta sono però due e ed entrano non solo nell’immaginario, ma anche nel panorama domestico.
La prima sono i plasteco, innovative figurine realizzate in pvc, alte una decina di centimetri, spesse alcuni millimetri grazie a una leggera imbottitura, e che con un po’ di acqua e sapone venivano attaccate sulle maioliche di cucina o sugli sportelli di pensili e frigoriferi.
Finito l’effimero effetto adesivo, le figurine ovviamente si staccavano, ma il gioco era anche nel riattaccarle cambiandone posizione e sequenza, facendo così dell’intera cucina un vero e proprio set dell’immaginario.
Anche le figurine plasteco erano distribuite con le confezioni del formaggino Mio, raffiguravano svariati soggetti, spesso di derivazione dal mondo del fumetto e dei cartoni, e furono prodotte sino ai primi anni settanta, indimenticabili per chiunque le abbia non solo maneggiate, ma anche annusato l’inconfondibile odore, tanto simile a quello dei canotti e delle ciambelle che accompagnavano gli infiniti bagni al mare delle infinite le villeggiature dell’infanzia.
L’altra novità è quella dei tempi che cambiavano, in particolare dei tempi pubblicitari che nella televisione avevano trovato il loro contenitore elettivo in Carosello che, con i suoi dieci minuti, incollava allo schermo qualcosa come 19 milioni di italiani e che, con la sigla di chiusura, mandava a letto milioni di bambini.
In onda dal 1957 al 1977, Carosello sarà fucina di creatività e talento, vedrà impegnati grandi registi e grandi attori ma, soprattutto, cambierà gli stili di vita degli italiani.
In questo scenario il formaggino Mio trova un suo posizionamento originale e di grande successo affidandosi a sketch interpretati da Giovanna Ralli, accompagnata prima da Franco Volpi e poi da Nino Manfredi, ma anche adottando come testimonial Braccobaldo Bau, il simpatico personaggio creato nel 1958 dai maestri dei cartoni animati Hanna & Barbera.
A testimonianza di come gli sketch di Carosello, anche quando parlavano il linguaggio dei bambini come nel caso del formaggino Mio e del suo testimonial Braccobaldo Bau, avessero una marcia in più e non rinunciassero mai a un afflato di riferimento con la cultura alta, basta raccontare un solo episodio.
Nel carosello in questione – si chiamavano proprio così i filmatini da due minuti e quindici secondi in cui la pubblicità era solo nel codino da trenta secondi, mentre prima era sceneggiatura pura – Braccobaldo Bau, partendo dal giardino di casa, tenta di portare al varo Kitty, una barca a vela a un albero.
Se l’impresa fosse facile, non ci sarebbe storia e, vista dall’altra parte del televisore, è naturalmente esilarante con gli infortuni e le peripezie del nostro che trasformano la barca iniziale in un qualcosa di simile a una rattoppata scialuppa.
Ebbene, è proprio la residua scialuppa che dobbiamo guardare con attenzione, perché il monoalbero oltre ad aver cambiato forma ha cambiato anche nome: non più Kitty, ma Kon Tiki, esattamente lo stesso nome della zattera con la quale nel 1947 l’esploratore norvegese Thor Heyerdhal aveva compiuto un’impresa epica, navigando per 101 giorni nell’Oceano Pacifico, dal Perù fino alla Polinesia.
E nel novero delle citazioni, visto il tema della navigazione, Braccobaldo Bau non poteva che uscire di scena citando Dante e la sua ora che volge al desio e ai naviganti intenerisce il core.
Ulteriore dimostrazione, questa, di come la pubblicità del formaggino Mio, e di tante altre del tempo, si ponevano non solo come strumento di affermazione commerciale, ma anche come agente di crescita culturale.
Nel 1962, nel pieno del successo industriale e commerciale, i Locatelli vendono a Nestlè; Ercole rimarrà presidente dell’azienda sino al 1970, mentre i suoi fratelli avranno altri incarichi nella multinazionale svizzera.
Al di là delle vicende societarie, che tutt’ora vedono la Locatelli essere marchio d’identità italiana ma di proprietà svizzera, il formaggino Mio ha senza alcun dubbio un posto d’onore nell’immaginario e nella storia del costume italiano, storia minuta nelle quale si riflette la grande storia, una storia fatta delle storie personali di ciascuno di noi e che ancora una volta ci fa rispondere che sì, la storia d’Italia può essere raccontata anche con un formaggino.
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