Immaginiamo la scena, l’ora di pranzo al cantiere edile. Ma prima di arrivare alla pausa pranzo… “Prendi cofana, cucchiara e americana e prepara mezza betoniera de malta”, dice il capo mastro al giovane operaio, tanto giovane da apprestarsi oltremodo al compito ricevuto, palesando l’inesperienza di chi non ha ancora capito i tempi di lavoro nel cantiere edile; che talora vanno accelerati ma che spesso devono necessariamente rallentare, per non incappare in pericolosi errori che possono compromettere le lavorazioni o provocare incidenti agli operai. E’ un lavoro duro quello nel cantiere, sporco; tra i più pesanti per quanto è in grado di impegnare il fisico e la muscolatura, ma anche (come direbbe Walter il politico buonista) per l’assidua attenzione che richiede. Perché è nei momenti di “di-stacco” mentale che ci si predispone all’errore, quando l’insensatezza e il sovrappensiero scotomizzano neuroni e sinapsi, fino al punto di formattare le residue zone di lucidità mentale e dissolvere ogni intento raziocinante. Il compimento dell’azione di stacco mentale nella migliore delle ipotesi si concreta con l’incazzatura del mastro che ti apostrofa “Sta malta è lenta, svejate regazzì”, in altri casi però può mettere a rischio l’incolumità dell’operaio stesso.
Un cantiere nella città eterna, sotto il gran caldo dell’estate romana; si costruisce di sana pianta un ampio edificio a destinazione d’uso uffici. Tanti operai, alcuni tecnici, qualche volto femminile. C’è il capo mastro; si chiama Santino, viene da Vermicino, località vicino Roma. Santino è un gran lavoratore, un quarantacinquenne che ne dimostra cinquanta, come spesso accade a chi si spacca la schiena in lavori così pesanti, abitudinario. La mattina giunge al cantiere alle 7, pettinato in modo maniacale e si tanto profumato da emanare scie odorose. Eccessi di dopobarba. Ha un fisico naturalmente muscoloso, gambe toniche e bacino stretto, con l’amorevole ridondanza “bassoaddominale” di natura enologica. Si appresta nello spogliatoio e ne esce cambiato, alliscia il capello lungo, paglia e fieno, e canticchiando prende il suo posto. Il suo volto, cautamente sorridente, recupera il ricordo dell’indimenticato Macario.
Lui discute il lavoro con la geometra, che a sua volta ha già dovuto assorbire la mezza sclerata dell’architetta, e a seguire lo imposta con la sua squadra di operai. Tutto fila liscio così come deve essere, tra sterri, carriole di impasti, pozzetti, pozzolana e tavelloni. Poi si approssima il mezzogiorno, l’umore di Santino subisce un’accelerazione, si eleva, si fa leggiadro come una farfalla in una riserva naturale, tra mille fiori; è la sua ora, quella che aspetta da quando apre gli occhi la mattina presto, consapevole suo malgrado di non potersi sottrarre all’infame destino del lavoro, perché tiene famiglia. E’ mezzogiorno.
In qualsiasi posizione si trovi e qualsiasi attrezzo abbia tra le mani, Santino molla tutto (nel vero senso della parola, apre le mani e lascia cadere a terra ciò che le occupa) si concede una rapida abluzione e guadagna la borsa del pranzo per l’agognato momento del pasto. Perché di borsa si tratta, una grande borsa che appoggia sul tavolo di palanche dando inizio alla funzione. La prima cosa che estrae dalla borsa è il fiasco (da 0,75l.) pieno di vino autoprodotto e tappato a sughero, con un bicchiere da osteria, poi la tovaglietta bianca e rossa e una mezza pagnotta di pane casereccio; a seguire, via via, i contenitori della pastasciutta e del secondo per finire poi con le immancabili ciambelline al vino. Così ogni giorno di cantiere.
Il tutto viene eseguito con gestualità sacrale e rituale che unitamente alla soddisfazione espressa, lo tengono lontano per qualche quarto d’ora dai pensieri di vita. E’ la parte inviolabile della sua giornata lavorativa, nella quale Santino è padrone di se stesso e non ammette alcuna disposizione esogena. E’ momento inalienabile. Prima di cominciare il meritato pasto, si riempie il bicchiere di vino e con occhi empi di gioia e godimento comincia l’atto rifocillante. Lui mangia lento, non lo fotti e mentre mangia, spesso, racconta. Un giorno disvelava ai presenti un’importante confidenza: aveva scelto il nome del suo ultimo figlio, nato da poco. Si sarebbe chiamato Erno. Quella rivelazione prestava il fianco al dileggio degli operai più giovani che, in modo screanzato, gli chiesero conto di quel nome, di dove lo avesse sentito mai.
Così lui posò la forchetta sul tavolo, abbozzò un sorriso di soddisfazione e con aria bonaria rispose che quella scelta fatta lo avrebbe emancipato, lo titolava ad essere, per sempre, il padred’erno. Questo era il motivo, che lasciò attoniti gli ingenui critici. Gran personaggio Santino da Vermicino. Ma un giorno come altri, stranamente, mentre operava il sacro svuotamento della borsa, non tirò fuori i soliti porta pranzo con le varie portate del pasto, ma uscì solo l’immancabile fiasco di vino e la pagnotta, più lunga del solito, intera; gli altri operai, quasi preoccupati, ebbero comunque l’intuitiva accortezza di non chiedergli nulla a riguardo. E quando Santino alzò la calotta superiore della pagnotta per individuare la parte giusta dell’addento e cominciare il pranzo, rimasero tutti basiti, capirono.
La pagnotta era scavata della mollica. Nella prima parte giaceva una porzione abbondante di rigatoni all’amatriciana, disseminata di pancetta e ben condita; nella parte mediana si accomodava un’appetibile fettina panata spessa e molto unta e, nella poppa, trionfava una magnifica cicorietta ripassata in padella con i pezzetti di aglio ben integrati. Uno strepito. Tutti i presenti erano colpiti dall’assemblage di quel pasto, un’opera dadaista che, a un tempo, rompeva schemi e consuetudini eppure li rispettava; esaltava l’acribia muliebre con la quale ogni rigatone si avvicendava all’altro e si distribuiva a guisa di pietra preziosa, contenuta nel castone della pagnotta. La sublimazione dell’estro di una donna, la moglie, che tutte le mattine alle cinque e mezza si alza per preparare la borsa del pranzo al suo Santino-padred’Erno.
Quella volta il pasto di Santino durò molto di più ed il fiasco di vino finì con il pranzo, con quella indimenticabile pagnotta. Tanto che a fine pasto, sopraffatto dalla naturale sonnolenza, appoggiò le braccia sul tavolo vi ripose in mezzo la testa e beatamente si abbandonò alla sonnolenza, soddisfatto, con quel suo mezzo sorriso alla Macario.
Cibaria
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