Pranzo al cantiere – seconda parte –.
Il condito ambiente del cantiere edile è divenuto, oggi, un meraviglioso suq che essuda di pluralità etnica e di genere, ove uomini e donne operano in sinergia (scarsa) all’ottenimento del risultato comune; la costruzione o la ristrutturazione di abitazioni ed edifici. Un vivido proscenio esistenziale, ove si susseguono scene di pura trivialità antropologica che si fanno prolegomeni di una filosofia di vita ispirata alla saggezza popolare ed alle tradizioni, con tutto il corollario di narrazioni orali, recitate, che talora sconfinano in esibizioni cialtronesche. Il cantiere edile, però, è anche un continuo scambio di saperi e di conoscenza tecnica che progrediscono le competenze artigianali e professionali di tutte le figure in gioco. Un coacervo di indoli diverse, che viaggia geograficamente dai Paesi dell’Est Europa fino ad approdare ai paesi delle nostre principali conurbazioni.
Una misticanza di usi e costumi davvero appetitosa, da gustare nella sua meravigliosa diversità. Tra le varie usanze c’è quella del pranzo-cena della bandiera, una buona tradizione che, una volta, intendeva affermare un raggiunto senso di comunanza tra lavoratori e che oggi, viene progressivamente emunta dal dilagante modello di vita (a)sociale ispirato a forme di esistenza egosolipsistiche e alienanti. Pura devianza sociale a cui l’essere umano non potrà mai abituarsi. Tant’è. Qualche tempo addietro nei cantieri edili c’era la stimolante usanza di piantare la bandiera tricolore sul tetto nel momento in cui questo fosse stato completato, anche qualora la struttura dell’edificio si presentasse ancora al grezzo.
Quella bandiera simboleggiava un buon punto dell’opera, poiché i muri maestri si edificavano manualmente con pietre e mattoni (e non come accade oggi con pompe autocarrate che sversano in opera il cemento) e perciò il completamento del tetto, segnalava uno stato di avanzamento lavori progredito. La casa è coperta e da li in poi si può lavorare anche se piove. E il proprietario di casa, in concomitanza alla bandiera issata, doveva offrire il pranzo-cena alle maestranze tutte, il pranzo della bandiera per l’appunto, come a stabilire un legame maggiore tra il committente, beneficiario del faticoso lavoro e i lavoratori protagonisti dell’opera in corso.
Il pasto era diverso per ogni regione, in Abruzzo per esempio si diceva: “completato il tetto, si cuoce il capretto”, in Sardegna si cuoceva l’immancabile maialino, in altre regioni si preparava una gran spaghettata e via dicendo. Tuttavia, col passare degli anni, i proprietari venivano colti vieppiù dalla contrazione muscolare dell’arto pagante, fino a raggiungere il rigor mortis del braccio che usualmente maneggiava il portafoglio. Stufi di cotanta taccagneria, dispacciata sotto mentite spoglie di indisponibilità economica, gli operai, nel tempo, hanno coinvolto il responsabile d’impresa per dividere la spesa del pranzo col proprietario; ma anche questo sodalizio coatto tra esseri paganti si è rivelato effimero.
Per nulla intenzionati a rinunciare al pasto della bandiera, i lavoratori da diversi anni oramai si autorganizzano con bracieri e vettovaglie per regalarsi quel momento di socialità, convivialità ed aggregazione, negato dall’avarizia dei committenti. E in quelle imbandigioni crapulose si scoprono cose davvero interessanti. Un cantiere edile ai Castelli, zona di laghi e boschi alle porte di Roma, tra i muratori c’è Antonio, indigeno 38enne col fisico asciutto l’occhio scaltro, folti capelli scuri e mossi, un physique du role adatto ad una pellicola a firma Tinto Brass. In vita sua ha mangiato la stessa quantità di carne che avrebbe potuto sfamare un villaggio africano per svariati anni. Patologicamente carnivoro.
Il pranzo-cena della bandiera è vicino e si vede un gran via vai di muratori e manovali, Antonio ama lavorare e parlare allo stesso tempo, è un animale sociale, un incontinente verbale, e mentre intonaca una parete con gestualità esperta e controllata parla con un elettricista della sagra della salsiccia dello scorso fine settimana. Raccontando di aver trovato tanti stand che offrivano le più svariate ricette a base di salsiccia, da quelle sugose a quelle al forno, da quelle sbollentate prima e cotte in padella poi a quelle piccanti ed essiccate, finanche a quelle immancabili cotte sulla brace; ma, altresì, si lamentava di non aver trovato la salsiccia cucinata nel modo che lui più d’ogni altro ama. Fritta nell’olio. Totalmente immersa nell’olio e fritta alla stregua di un filetto di baccalà.
Quando Antonio parla delle salsicce fritte nell’olio, gli si modifica l’espressione del volto, lo sguardo aumenta d’ampiezza e di riflettanza, subisce una accelerazione emotiva che monta, monta fino a sconfinare in una sorta di crisi mistico-organolettica che lo getta in una dimensione altra, lisergica; quella sì, è la sua droga. Ma oggi la crisi dura poco, ne esce in modo catartico pensando al pranzo che gusterà di li a poco e in uno stato di palese atarassia si accende l’ennesima sigaretta della giornata. E poco dopo, finalmente, si da inizio alla giostra calorica del pranzo della bandiera. Sul grande tavolo è stata messa una tovaglia pulita e stirata di tutto punto sopra la quale si vedono pietanze di molto appetitose destinate allo scambio, dai nostrani cannelloni, parmigiana di melanzane e salsicce alla brace ai totalizzanti piatti rumeni di musaca, e mititei; passando per i più ricercati vinigret e varenyki di tradizione ucraina, per i bigos e pierogi di provenienza polacca e i tavce gravce di preparazione macedone.
Al centro della tavola troneggia sopra grandi foglie non meglio identificate, una congerie di insaccati italiani e rumeni diversamente piccanti a motivare la stappatura delle prime bottiglie di vino rosso e coi quali si comincerà il pasto. Seguono dolci d’ogni tipo, sudanti oltremodo della componente calorica. Il pasto viene ruscellato con fluidi liquorosi d’ogni genere, dalle immancabili birre e vini italiani ai più svariati distillati alcolici: palinca, vinars e tuica rumeni, cognac e vodka ucraini, ed ancora birre e vodka di produzione polacca. Uno strepito ingolosente. Al quale Antonio non si sottrae, risolvendosi senza infingimenti a consumare tali prelibatezze culinarie, abbandonato ingordamente al sincretismo etnico dei sapori, che per un breve momento gli fa dimenticare quella particolare voglia, mai quietata, delle salsicce fritte nell’olio.
Il pranzo della bandiera finisce nel tardo pomeriggio quando i lavoratori, satolli, decidono di lasciare il cantiere. “A domani” sospira una voce affannata. Prosit.
Cibaria
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