Riofavara. Il Nero d’Avola e i vini siciliani.
Il commercio dei vini siciliani è da anni assoggettato a inclinazioni e mode di un mercato prima votato ai vitigni internazionali impiantati in ogni dove, poi ispirato dagli autoctoni sempre e comunque. Una regione dall’immenso patrimonio di territori e vitigni (esteso tra la finezza dell’Etna, la forza dei rossi di Contea di Sclafani, per arrivare alla grande complessità del Marsala), ma che negli anni ha visto sacrificata questa eterogeneità all’idea di “vino bistecca”.
Spesso l’americanizzazione del gusto ha direzionato queste e altre produzioni verso una perdita di identità territoriale. Ma il senso di riappropriazione e una maggiore consapevolezza del luogo, hanno permesso ad alcune realtà di raccontare più di altre la loro autenticità. Nel vino ancor di più.
Perché se è vero che il successo di questa regione è dovuto agli importanti numeri che le grandi aziende sono riuscite ad imporre ai mercati nazionali e internazionali, testa di ponte per lanciare la Sicilia vitivinicola nel mondo, è altrettanto vero che l’elemento caratterizzante nel vino, qui come altrove, è lo spirito del luogo. Quella leggibilità storico-culturale-territoriale che va ricercata inevitabilmente in quelle realtà che non hanno avuto l’esigenza, o la scaltrezza, di farsi contaminare dagli umori del mercato. Riofavara appartiene a questo senso di sicilianità. E la racconta nelle sue radici. La racconta nella pietra che ne ha determinato la nascita.
Siamo in Val di Noto (o Vallo di Noto), un’area rinfrancata nei mesi estivi dalla brezza marina che spira dal mare profondo verso la costa. Battuta da sud-est dal peso dei venti umidi di Mezzogiorno. Irraggiata dalla luce del sud che profuma di Africa. Le cui spiagge furono approdo sicuro per culture millenarie. Questo cuneo di terra, delimitato dalle zone di Catania, Ragusa e Siracusa, è stato una mirabile impresa collettiva in cui l’architettura si è elevata ad arte, concependo un complesso di pietre scalpellinate con dovizia e sfarzo e regalate al World Heritage List. Caltagirone, Catania, Militello Val di Catania, Modica, Noto, Palazzolo, Acreide, Ragusa e Scicli sono infatti contrassegnati dal 2002 come Patrimonio dell’Umanità.
Riofavara nasce qui nel 1920, in questa punta estrema della Sicilia Sud Orientale. La parte vitivinicola per questa azienda però, arriverà solo nel 1994. Con i suoi sedici ettari, frammentati tra le contrade più vocate (che se fossimo stati aldilà dell’Alpe senza dubbio alcuno si sarebbero chiamati cru), Riofavara produce sette vini, di cui due Moscato di Noto e un Metodo Classico, anch’esso da uve Moscato bianco. L’agricoltura qui è finalmente rispettosa dell’ambiente, dedita a mantenere una vitalità del suolo che prima di ogni altro elemento concederà vini altrettanto vivi. E anche in cantina, pur avvalendosi di tecnologie moderne, si è avuto cura di mantenere inalterata la tradizione di vinificazione di queste terre.
Riofavara è soprattutto San Basilio. Il connubio terra/vino risulta qui ancor più ambivalente, se prima che il nome del vino, San Basilio è la denominazione della contrada che lo origina, nel comune di Ispica. Concetto di designazione del vino, questo, capace di dare risalto al brano di terra irripetibile su cui sono impiantate le viti e che qui in Italia sembra ancora sfuggirci. San Basilio è poco più di tre ettari di terreno a tessitura calcarea, su cui è impiantato un vigneto allevato ad alberello e controspalliera a cordone speronato. I vitigni di Surra, Pignatieddu, Nzolia, Muscatedda, Niururuossu sono in minima porzione la componente gregaria di questo Nero d’avola fuori dalle aspettative.
“Quarantuotturi” è una pratica di macerazione che riallaccia i fili con l’antica tradizione locale. Non una semplice moda transitoria che questo passaggio storico piega alla “finezza”, ma una precisa scelta identitaria. Quarantotto ore di vinificazione sulle bucce, fermentazione con i propri lieviti, in una sorta di delicata infusione in cui i mosti non subiscono nessun arricchimento. Lieve passaggio in barrique esauste e poi un affinamento in bottiglia per almeno otto mesi prima della commercializzazione.
Il San Basilio è vino di calore e freschezza, con quella dualità propria della profondità di queste terre.
Naso di complessa oscurità, è un corredo di frutti rossi: marasca, china, liquirizia, talco e carne. Un fiore bianco vellutato, difficile da identificare, ma che rimanda ad una nota vegetale. Si intravede una leggera componente mentolata. In un secondo tempo lo scenario diventa marino. Iodato. In bocca il tannino è deciso, ma senza ostracizzare le gengive; la dorsale si allunga senza smagliature. Sembra che l’agitazione dei venti che animano il mare, prima di spettinare queste vigne, donino a questo vino una sapidità che va oltre la percezione organolettica: diventa fisica, foderando la bocca.
Un Nero d’Avola estremamente sudista per collocazione geografica, ma di un’eleganza per nulla pretenziosa e scontata e che, nell’immaginario collettivo, difficilmente si riscontra a queste latitudini e per questo vitigno.
Il costo? Poco più di dieci euro sullo scaffale. E scusate se è poco.
San Basilio Riofavara 2013
di Raffaele Marini
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