Pronunciare la parola Blockchain fuori da un contesto strettamente finanziario, provoca nella maggior parte degli interlocutori una reazione comune. Per molti è un termine associabile solo ai bitcoin e alla tranciabilità degli scambi di moneta virtuale, ma in realtà si tratta di una tecnologia in grado di essere applicata agli ambiti più disparati. Primo fra tutti quello agroalimentare. Ma andiamo con ordine.
La tecnologia in questione è sintetizzabile nel concetto di registro virtuale di informazioni. Un registro diverso rispetto ai metodi finora adoperati, perché non sovrascrivibile. Le informazioni acquisite, passaggio dopo passaggio, vengono scritte su blocchi chiusi da una chiave criptografica che oltre a non consentire la modifica dei dati, richiede l’apertura di un nuovo blocco per ogni aggiornamento. Ecco dunque perché il nome in italiano traducibile in “catena di blocchi”.
Inoltre i dati inseriti non vengono salvati in un unico computer, ma in una serie innumerevole di server dislocati in tutto il mondo così da costituire una ulteriore garanzia di validità. Sebbene in Italia solo il 37% delle grandi aziende e il 20% delle Pmi conoscano le possibili applicazioni della blockchain, questa potrebbe portare grandi benefici e sul piano della contaminazione e su quello della contraffazione degli alimenti.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ogni anno nel mondo circa 60 milioni di persone si ammalano a causa di cibi non idonei agli standard qualitativi e anche laddove fosse possibile riconoscere la contaminazione di un prodotto, in mancanza di un archivio dati preciso che garantisca una tracciabilità del cibo immediata, il numero di vittime sarebbe comunque superiore a quello di un prodotto controllato dalla blockchain.
Se dunque tutte le aziende alimentari utilizzassero questo metodo sarebbe possibile conoscere lo stabilimento di produzione piuttosto che il canale di distribuzione in maniera tempestiva e una volta trovata la causa del contagio, arginare realmente i danni.
L’altro aspetto interessante riguarda la tutela del Made in Italy. La blockchain potrebbe infatti essere un’arma vincente per combattere l’Italian sounding ovvero la contraffazione di prodotti spacciati per italiani al 100%, che costituirebbe un giro di affari di oltre 100 miliardi di euro contro i 41 miliardi di export alimentare del nostro Paese.
Il primo a scommettere sulle potenzialità della nuova tecnologia nel settore della GDO è stato il gruppo Carrefour. La catena francese, che già due anni fa aveva iniziato a testare il nuovo metodo sulla linea di polli ruspanti di Auvergne Carrefour Quality Line, per poi estenderla al comparto agrumi, uova, salmone, carne, latte, formaggio e pomodoro, ha infatti presentato il programma strategico al 2022 dichiarando una grande attenzione verso la trasparenza e la tracciabilità della filiera e ha scommesso di riuscire entro il 2025 a certificare in chiave 4.0 tutta la linea, circa 200 referenze e oltre ottomila produttori.
Emblematico è poi il caso Barilla. L’azienda ha infatti imposto l’obbligo della tracciabilità in blockchain ai loro fornitori per garantirsi la qualità del basilico usato nella realizzazione dei sughi pronti.
E ancora in Italia, il Consorzio di Tutela del Pomodoro di Pachino Igp, si sta impegnando nell’ottimizzazione della tecnologia Blockchain per la tracciabilità e la certificazione dei loro prodotti in tutte la fasi di lavorazione della filiera.
Il Consorzio Arance rosse di Sicilia invece ha realizzato sempre in blockchain una versione moderna del bollino Igp presente sulla retina delle arance per verificare nell’immediato il campo di produzione, la data del raccolto e le modalità di conservazione e distribuzione in tutto il mondo.
Secondo quanto emerso dalla ricerca dell’Osservatorio Blockchain & Distributed Ledger del Politecnico di Milano, in Italia è proprio l’Agrifood il settore in cui la blockchain sembra avere più concretezza. I dati emersi parlano chiaro: tra le soluzioni digitali innovative per la tracciabilità alimentare è questa a prevalere con un 43% di preferenze e una presenza più che raddoppiata rispetto all’anno scorso, seguita al 41% dalla tecnologia Qr code, al 36% dal mobile app, data analytics al 34% e Internet delle cose al 30%. (l’estensione di Internet al mondo degli oggetti)
“Questo processo è in grado di mettere in moto una dinamica virtuosa che orienta la concorrenza su standard di qualità alti, e non soltanto sulla logica del prezzo più basso: a vincere è il più bravo, non il più furbo – spiega Marco Vitale, CEO di Foodchain – Questo può contribuire tra l’altro a redistribuire la ricchezza all’interno della supply chain, dove spesso oggi il produttore viene pagato cifre irrisorie anche a fronte di prodotti di alta qualità. La logica della certificazione metterebbe un’arma in più nelle mani di chi produce le materie prime di qualità, che si tratti dei pomodori di Pachino o delle arance di Sicilia, evitando che si paghino i produttori 20 centesimi al chilo per prodotti che poi arrivano sui banchi dei supermercati a costare venti volte tanto”.
Ma perché la blockchain possa sfruttare al meglio il suo potenziale sono necessarie diverse condizioni. E’ indispensabile innanzi tutto concentrarsi su un unico sistema già esistente ed evitare la proliferazione di nuove catene di blocchi. Tra le obiezioni più frequenti fatte alla tecnologia blockchain c’è infatti la possibilità di inserire dati falsi non facilmente verificabili. Questo tipo di incidenti interessa però quasi esclusivamente sistemi di blockchain molto ridotti con un numero ristretto di attori, non accade diversamente in condizioni come quelle create dal sistema IBM Food Trust che genera oltre 2 milioni di eventi al giorno.
Inoltre è importante considerare l’aspetto economico. In primis la fluttuazione dei mercati delle criptovalute, che ha già generato nel tempo diversi episodi di speculazione e in secundis il fatto che l’impiego di nuove tecnologie implica sempre un aggravio di costi importante. Se però ci concentriamo per esempio su prodotti alimentari a basso costo non è sempre detto che questi siano sostenibili, dunque ci si auspica un intervento della politica nel campo agricolo per facilitare tramite agevolazioni l’introduzione del digitale e rendere quindi possibili questi processi.
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