Se è vero che mangiare è un atto agricolo, allora vuol dire che il cibo buono, pulito e giusto, come sancito da Slow Food, è quanto di più lontano possiamo immaginare dall’industria alimentare. A ridosso di un’edizione dell’Expo caratterizzata da polemiche, scandali e mancati propositi, questo sarà l’argomento alla base di tutte le discussioni che verranno intavolate da qui ai prossimi sei mesi. In un mondo sempre più global e sempre meno local, il cibo ha smesso di essere nutrimento ed è diventato un business da migliaia di miliardi di dollari: sperimentazioni, brevetti sulle sementi, OGM, fitofarmaci; senza contare il prezzo pesantissimo che continenti come l’Africa o l’America Latina, ma anche regioni italiane come Puglia e Sardegna, stanno pagando in nome del land grabbing (l’accaparramento speculativo di terre) da parte delle multinazionali.
La sopravvivenza alimentare del pianeta sembra detenuta da appena quattro grandi gruppi dell’agro-business; la fame o l’abbondanza di cibo dipendono dai loro giochi. È per questo che è fondamentale iniziare a parlare di cibo sul serio. Slow Food, nata come Arcigola nel 1986 a Bra da Carlo Petrini e un gruppo di amici con il piacere del gusto e del vivere lento, ha avocato a sé l’obbligo di reclamare il diritto al cibo per intere comunità nel mondo e per questo è un interlocutore privilegiato con cui iniziare a confrontarsi. Inauguriamo un ciclo dedicato ad Expo, parlando proprio di cibo e agricoltura con Angelo Proietti Palombi, Fiduciario della Condotta Slow Food di Viterbo, seconda nel Lazio e una delle più attive in Italia.
Parliamo di Slow Food e di Expo e della scelta che Slow Food ha fatto di partecipare all’Esposizione accanto a Coca Cola e McDonald’s. A molti è sembrata una scelta incoerente e non incisiva da parte di Slow Food.
“Ci sono state tante polemiche intorno alla partecipazione di Slow Food ad Expo; nella confusione generale, siamo stati accomunati alle multinazionali alimentari che non solo partecipano, ma anche sponsorizzano Expo. È ovvio che io non sono d’accordo con questa analogia: Slow Food nasce dall’idea di creare un circuito di cibo buono, pulito, giusto, legato ai contadini, al territorio, alle identità che caratterizzano una comunità. Slow Food si identifica con i Presidi d’Italia, con quelli sparsi e tutelati nel mondo, con progetti come Terra Madre, Salone del Gusto, Slow Fish.
Tutto questo non può essere accomunato alle multinazionali dell’industria alimentare. Questa è la mia posizione e quella di molti altri dentro Slow Food, anche se le identità e le teste pensanti sono molte e di diverso orientamento”.
Vuol dire che qualcuno anche dentro Slow Food sogna una comunione d’intenti con le grandi multinazionali?
“Vuol dire la linea guida generale è quella che è stata diffusa in una lettera firmata da Carlo Petrini, insieme a Don Ciotti dell’associazione Libera, in cui si definisce necessaria la partecipazione di Slow Food ad Expo. È una posizione su cui personalmente ho puntato i piedi sin dall’inizio anche all’interno della Condotta di Viterbo: ad un certo punto bisogna decidere se stare all’opposizione per sempre e rimanere all’angolo, o entrare in un sistema e cercare di apportare dei cambiamenti dall’interno. E io quei cambiamenti voglio che siano profondi!
Non potevamo lasciare che il mondo pensasse che il cibo fosse solo industria. Il cibo è quello che costituisce il manifesto di Slow Food e non ci sono alternative”.
Quindi quali sono le possibilità che Slow Food intravede per il futuro del cibo nel mondo? Non è un mistero ormai che il cibo sia diventato una merce e che spostare una produzione da un luogo all’altro del mondo, vuol dire segnare il futuro economico e sociale di interi Paesi.
“Slow Food raccoglie oltre 2000 comunità del cibo nel mondo e almeno 400 progetti di tutela alimentare attraverso i Presidi, di cui 200 solo in Italia. Questo vuol dire coinvolgere oltre 10 mila piccoli produttori, contadini, allevatori, pescatori. Supportiamo oltre 10 mila orti solo in Africa, promuovendo la sostenibilità ambientale e la tutela della biodiversità. Non posso vedere soluzione diversa da questa se parliamo di futuro del pianeta.
Il futuro è agricoltura, intesa come entità multidisciplinare: quando nel 1992 furono introdotte le prime PAC incentrate non più su quanto, ma su come si produce e si implementa l’utilità di un prodotto sul territorio, per la prima volta si è concretizzata l’idea che l’agricoltura non è indipendente dai metodi di produzione e dall’economia di un territorio. Ad oggi è assolutamente provato che adottare produzioni sistemiche impoverisce il suolo e lo condanna alla sterilità e che questo condanna l’agricoltura ad una dipendenza dalle multinazionali delle sementi o dei fitofarmaci”.
Quindi solo Slow Food si impegna per un’agricoltura di “resistenza”?
“Slow Food si impegna in una direzione diversa, ma non può arrivare ovunque. È per questo che negli anni abbiamo appoggiato associazioni o movimenti che nel mondo hanno garantito un principio fondante della nostra associazione, cioè quello della sovranità alimentare. È successo con il Movimento Campesinos nel 1992, sta succedendo ora con Vandana Shiva e la sua azione radicale di tutela delle sementi in India, una battaglia che sta affrontando con la sua Fondazione contro i brevetti delle multinazionali. Non è un caso se anche Vandana Shiva è Ambasciatrice con noi ad Expo”.
Di certo parole impegnative quelle di Slow Food e dal significato inequivocabile; un manifesto di intenti che inchioda ognuno alle proprie responsabilità. Slow Food per prima. Per questo apriamo il nostro occhio vigile su Expo e sulla sua capacità di “nutrire il pianeta”.
di Tamara Gori
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