Vi siete già trovati nella situazione in cui aprite quella caspita di bottiglia, quella conservata in cantina, tra ragnatele e polvere, che decidete di stappare solo e proprio quel giorno lì, quello che avete segnato sul calendario tre mesi fa, e… tànghete, sa di tappo?! Anche io. Ecco, ho aperto una bottiglia di Lambrusco di Sorbara. E vabbè, uno dice “niente di che”. Però, per una serie di motivi, ci tenevo; anche perché era il regalo di una persona a me molto cara. E poi mi piaceva l’idea di poterci sentire dentro quella mattonella tra la Secchia e il Panaro, quei terreni alluvionali. Lì, dove il Lambrusco prende vita con quei classici sentori di frutti rossi primaverili e il floreale dell’immancabile viola. Scarico di colore e sapido alla beva. Reso fragrante dalla carbonica. Amico geniale del “a tutto pasto”. E invece Tca! Il serpeggiante Tricloroanisolo.
Così, al posto delle ciliegie e delle amarene, ti ritrovi con sentori ammuffiti di cane bagnato e un sibilante -neanche troppo- cartone fradicio, a braccetto con un variegato di miasmi che scaccerebbe una iena affamata. Mi sono arrovellato sul da farsi. Ho riflettuto su come salvare la bottiglia. Ma il mio pregnante meditabondare è finito in un’unica inequivocabile formula: al sentore di tappo non c’è rimedio. Fino a quando non mi è venuto in mente che la soluzione c’è, è preventiva ed è sotto gli occhi di tutti: il tappo a vite! Lui, l’intollerabile tappo a vite. E’ semplice, economico, fa figo all’apertura -o prima o poi lo farà, figo!-. Vi toglie l’ansia da prestazione, perché se il vino sa di tappo ad una cena con gli amici è colpa vostra, del produttore e di 3/4 della palazzina. Ma soprattutto nega l’instaurarsi in modo inesorabile di quel dannato sentore a cui non c’è proprio rimedio, nemmeno con i vari riti sciamanici e carta pellicola, o con olio dei catecumeni messo in infusione con i petali di Koki’o.
Insomma il tappo a vite è pratico, veloce e tutela le querce. Va bene sulle bottiglie da 6 Euro, ma è ancor meglio su quelle da cento. Anche perché svuotare nel lavandino uno 0,75 di vino costoso, comporta inevitabilmente di doverci versare sopra almeno il doppio se non il triplo delle lacrime! Va benissimo in spiaggia o durante i pic nic e, se il vino avanza, chiudi tutto e te lo porti a casa per la sera a cena. (Sì, lo so che non avanza!). Quindi Smettiamola di essere dei romantici a casaccio e concediamo il giusto peso alle cose. I punti d’osservazione sono diversi e la storia ne ha ben donde da raccontare. Il passaggio dall’analogico al digitale ad esempio. Quanti corrono il rischio di vedere il risultato delle loro foto da vecchie reflex a pellicola solo dopo la stampa e a costi ormai sostenuti? O quanti ancora scrivono con una penna su un foglio bianco una lettera da imbustare, affrancare e spedire? Quanti ripercorrono questi gesti poetici a fronte della snella praticità dell’inviare una mail? E se è divenuto desueto il mestiere di scrivere a mano, perché non lo è il gesto di aprire una bottiglia con un cavatappi?
In considerazione della possibilità di rischio che questo gesto comporta quando il tappo è in sughero, per quanto bello sia il gesto, non ripagherà mai un liquido deturpato dal maledetto Tca e, peggio ancora, tutte le aspettative naufragate che avevate legato a quella bottiglia. Forse il tappo a vite ci disgusta perché ci spoglia dall’illusione di qualità che abbiamo attribuito erroneamente e in maniera esclusiva al sughero.
Ma si sa, la storia del vino è ciclica, come le stagioni e la politica. Anzi no, le stagioni ultimamente sono più imprevedibili.
di Raffaele Marini
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