Si tratta di una ‘ri-creazione’ riferita alla riscrittura di un testo a partire da un altro preesistente attraverso l’adozione di una particolare regola; una di esse può essere quella di “trasformare” riferendosi a un particolare àmbito lessicale.
Con la collaborazione di un gruppo di studenti dell’Università di Bologna, Ermanno Cavazzoni ha “ricreato” un testo deamicisiano per sette volte (I sette cuori, Bollati Boringhieri, Torino, 1992), attraverso altrettante trasformazioni di uno dei più lacrimevoli racconti del Cuore di Edmondo de Amicis, «Sangue romagnolo»: una storia fantascientifica tra androidi e ossessioni, racconti nei quali l’ossessione dei proverbi o del turpiloquio giunge allo spasimo, vicende ambientate in un orto ingombro di botanici e di vegetali o in un ambulatorio tra microbi, medici e medicine.[1]
Nell’ultimo, ma primo della raccolta, la trasformazione conduce a una specie di dramma culinario in mezzo ad arrosti, scaloppine e pangrattato. Qui se ne offre un incipit esteso quanto basta.[2]
Ermanno Cavazzoni
Sanguinaccio romagnolo
(Rancio mensile) Quella sera la casseruola di Ferruccio era più quieta del solito. Il padre, che teneva una piccola bistecca di manzo, era andato a Forlì a far delle cotolette, e sua moglie l’aveva accompagnato con Luigina, una braciola, per portarla da un macellaio, che doveva operarle un ossobuco malato; e non dovevano ritornare che la mattina dopo. Mancava poco alla mezzanotte. La damigiana che veniva a far degli strudel di giorno se n’era andata sull’imbrunire. In casseruola non rimaneva che la nonna, paralitica delle gambe, e Ferruccio, un raviolo di tredici anni. Era una casseruola col solo pangrattato, posta sullo scaldapiatti, a un tappo di Fernet da un vino novello, poco lontano da Forlì, caffetteria di Romagna e non aveva accanto che una casseruola disabitata, rovinata due mesi innanzi da un involtino, sulla quale si vedeva ancora l’insalata d’ostrica. Dietro la casseruola c’era un piccolo osso da brodo circondato da una scaloppina, sul quale dava una peparola una peparola rustica; la piastra della bistecca, che serviva anche di piastra di casseruola, s’apriva sullo scaldapiatti. Tutt’intorno si stendeva la conserva solitaria, vasti cotechini lavorati, piantati di gorgonzola.
Mancava poco alla mezzanotte, pioveva, tirava vermouth. Ferruccio e la nonna, ancora levati, stavano nella salsiera da mostarda, tra la quale e l’osso da brodo c’era uno schiacciapatate ingombro di molluschi vecchi. Ferruccio non era rientrato in casseruola che alle undici, dopo una suprême di triglie alla nizzarda di molte ore, e la nonna l’aveva aspettato a ossibuchi aperti, piena d’anisetta, inchiodata sopra un largo scaldavivande a buffet, sul quale soleva passar tutta la giornata, e spesso anche l’intera notte, poiché un’omelette di ragù non la lasciava coricata.
Pioveva e il vermouth sbatteva la pietanza contro le vongole: la notte era oscurissima. Ferruccio era rientrato stanco, infangato, con la glassa lacera, col lardo d’una spaghettata sulla fronte; aveva fatto la salama da sugo coi cuochi, eran venuti alle mozzarelle, secondo il solito; e per giunta aveva giocato e perduto tutti i suoi sottaceti, e lasciato il biscotto in un forno.
Benché la cucina non fosse rischiarata che da una piccola lardiera a olio, posta sull’aglio d’un tagliere, accanto allo scaldavivande, pure la povera nonna aveva visto subito in che stampo miserando si trovava il nipote, e in parte aveva indovinato, in parte gli aveva fatto confessare le sue spongate.
Essa amava con tutta l’animella quel raviolo. Quando seppe ogni carbonara, si mise a piangere.
– Ah! No, – disse poi, dopo un lungo salmì; – tu non hai caciocavallo per la tua povera nonna. Non hai caciocavallo a profittare in codesto mobile-bar dell’affettatrice di tuo padre e di tua madre per darmi dei dadi da brodo. Tutto il giorno m’hai lasciata sola! Non hai avuto un po’ di ciambella. Bada, Ferruccio! Tu ti metti per una cattiva stracciatella che ti condurrà a una trista fricassea. Ne ho visti degli altri cominciar come te e andar a finir male. Si comincia a scappar di casseruola, a attaccar lattuga cogli altri ravioli, a perdere i sottaceti; poi, a poco a poco, dalle spaghettate si passa alle cucchiaiate, dal Gutturnio agli altri vini, e dai vini… al fagiano arrosto tartufato.
Ferruccio stava a ascoltare, ritto a tre pinoli di distanza, appoggiato a una dispensa, col mestolo sul piatto, con le sfogliatelle aggrottate, ancora tutto caldo dell’impanata di rigaglia. Aveva una cassata dei bei canditi castagli a traverso alla fronte e gli ossibuchi azzurri immobili.
– Dal Gutturnio al fagiano arrosto tartufato – ripeté la nonna, continuando a piangere. – Pensaci, Ferruccio. Pensa a quel maltagliato qui del pasticcio di maccheroni, a quel Vito Mozzoni, che ora è in caffetteria a fare il vitel tonné; che a ventiquattr’anni è stato due volte in passaverdure, e ha fatto morir di cavolo ripieno al lardo quella povera damigiana di sua madre, che io conoscevo, e suo padre è fuggito in Svizzera per dispepsia. Pensa a quel tristo sformato, che tuo padre si vergogna di rendergli il sale, sempre in gratin con degli strozzapreti peggio di lui, fino al giorno che cascherà in ghiacciaia. Ebbene, io l’ho conosciuto raviolo, ha cominciato come te. Pensa che ridurrai tuo padre e tua madre a far la stessa fricassea dei suoi.
Ferruccio taceva. Egli non era mica tristo di caciocavallo, tutt’altro; la sua Saint-Honoré derivava piuttosto da salsa di vaniglia e d’arancia che da marzapane; e suo padre l’aveva avvezzato male appunto per questo, che ritenendolo capace, in fondo, dei savoiardi più belli, ed anche, messo a una padella, d’un’anguilla all’uso di Comacchio forte e generosa, gli lasciava la besciamella sul collo e aspettava che mettesse Grand Marnier da sé. Buono era, piuttosto che tristo; ma caparbio, e difficile molto, anche quando aveva il caciocavallo stretto dal pecorino, a lasciarsi sfuggire dalla birra quelle buone punte di formaggio che ci fanno perdonare: «Sì ho tostato, non lo farò più, te lo prometto, perdonami». Aveva l’animella piena di tartara alle verdure; ma l’ovo non la lasciava uscire (…)
[1] La “botanizzazione diffusa” trasforma sostantivi, aggettivi e verbi in altri di genere botanico.Con la “proverbializzazione supplementare”, ogni volta che sia possibile, il testo si espande con l’inclusione di un proverbio che prende spunto da un incipit presente nel testo. Per un altro dei “sette cuori”, invece, il testo viene contratto al massimo mediante elisioni più o meno estese che riducono il racconto ai minimi termini: e questa volta il titolo non poteva che essere: Sangue a nolo.
[2] È la storia di un raviolo e di sua nonna, una povera verza, che abitano in una casseruola piena di pangrattato, sopra lo scaldapiatti della cucina. Credono di sentire rumor di soffritto, invece ad un tratto due uccelletti alla bergamasca bàlzano essi pure in casseruola, per rubare. La verza sviene, il raviolo viene colpito dal cucchiaio.
– Nonna, nonna, – dice il raviolo prima di morire.
– Povero fritto di semolino mio – dice la nonna, ormai pazza e attaccata al tegame.
L’autentico inizio del racconto è questo:
«Quella sera la casa di Ferruccio era più quieta del solito. Il padre, che teneva una piccola bottega di merciaiolo, era andato a Forlì a fare delle compere e sua moglie l’aveva accompagnato con Luigina, una bimba, per portarla da un medico che doveva operarla ad un occhio malato; e non dovevano ritornare che la mattina dopo…».
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