E’ quello giornaliero, il compagno del pasto quotidiano, spesso definito sfuso. E’ il vino a cui senza presentazioni dai del tu, che entra ben volentieri nel gotto, ma arrossisce se a tavola c’è un calice. Quando è definito “del contadino” fa abbastanza paura per i difetti che potresti incontrarci:una sorta di vaso di pandora versione enologica. Gode della semplice simpatia strappa-coccole del bastardino ed è lontano dall’impostazione perfetta e muscolosa delle razze targate da pedegree. Il vino giornaliero ha perso la sua dignità e il suo ruolo sulla tavola già da tempo.
Il perbenismo della bottiglia di vino da 0,75 con etichetta patinata è cresciuta di pari passo con lo snobismo che si è generato nei confronti dei contenitori dalla veste pauperista: fiaschetto, dama, caraffa, per arrivare alla bottiglia da un litro con tappo ermetico apri e chiudi. D’altronde si sa, l’imborghesimento passa attraverso un’interfaccia, la quale spesso genera un immaginario distorto, poggiato su un’inferenza. Nel caso del vino giornaliero è in grado di alterare, attraverso il pregiudizio, la percezione del sapore del contenuto stesso.
Altro parametro discriminante è l’ultima barriera che si pone tra noi e il vino: il tappo. Che sia a vite, “Stelvin”, che già nell’apertura riconduce alla Nepi leggermente frizzante, o a corona, che rimanda in maniera equivoca ai vecchi tappi della Coca-Cola e delle più artigianali bottiglie di pomodoro, come sia, la povertà immaginativa la spunta sulla tecnica, sulla perdita del rischio. Sì, perché ormai si sa, il tappo a vite su tutti dà grandi risultati. Da qui la richiesta quasi esclusiva che ne fanno molti paesi esteri con ragioni tutte valide: sviluppo del vino ottimo, semplicità nell’apertura ed esclusione di quel figlio-di-buona-donna-rissaiolo-ce-so-solo-io del TCA – sentore di tappo-! Questi tappi infatti tolgono l’ansia da tricloroanisolo, spoilerando un finale da vino pulito.
Se la pena per aver affermato il profano è il sesto cerchio nella città di Dite, confesso fin da subito il mio pensiero: lo Stelvin va impiegato eccome, e non solo sui vini giornalieri, ma soprattutto sulle bottiglie di alta risma. Cos’è allora che guida questa ostinazione puerile nel voler prediligere esclusivamente la forma al contenuto? A cosa è dovuta questa diroccata architettura mentale che ci spinge a consumare il peggio, guidati unicamente dal senso della vista – che, in questo caso, è il meno interessante -? Almeno tre punti su tutti.
E in una società carente di consapevolezza, la qualità va a discapito di un brand che fa il monaco. Eccome! Soprattutto se il marchio industriale diviene l’unica garanzia, richiamando all’omologazione chi ci si veste e chi ci si nutre. “E’ bono!” sarà la compensazione alla perdita di sensorialità che condurrà a demonizzare ogni descrittore e chi ne fa strumento. Un consumo semplicistico sarà così a mero vantaggio delle fabbriche del vino e delle loro produzioni seriali, con relativo gaudio dell’industria fitosanitaria.
Ma ancora di più ci spaventa l’idea di poter sembrare poveri. In onore di questo apparire abbiamo sacrificato i nostri figli, nel nome di merendine sofisticate, in confezioni multiple dai consolatori mulini d’altri tempi, portate a scuola in sostituzione di quello che era pane e pomodoro o il buon desueto ciambellone. Lo stesso sistema immaginifico ha coinvolto la rozzezza del fiasco o la forma inquartata della caraffa, che con il loro aspetto proletario, inutile negarlo, privano la tavola di nobiltà e declassano il ceto degli avventori.
Chi se ne frega se si sbriciola Pompei; figurati se il 17 vado a votare per “salvare il mare”. Ma i tappi di sughero no, quelli no! Non si toccano!
L’unica soluzione sarà quindi quella di tornare a sviluppare senso critico o saremo destinati ad essere palati da giogo per l’industria. Prima o poi dovremo elaborare traumaticamente l’idea che l’unica via di salvezza passa attraverso una “decrescita felice”.
Come dice l’altra penna di CuDriec, quella più sottile ed elegante, “facciamo molto meno di quello che siamo chiamati a fare”. Iniziamo a fare ciò che dobbiamo quindi. Iniziamo a pensare che votiamo ogni giorno per quel cambiamento cui tanto aneliamo, soprattutto quando scegliamo con cosa nutrirci. Le bottiglie da due euro sullo scaffale dovrebbero far riflettere anche il più sprovveduto dei numerici, poiché di fatto i conti non tornano: il prezzo basta a malapena a ripagare confezione, etichetta, capsula e marketing; figuriamoci poi una bottiglia sinuosa e il tappo di sughero. E il contenuto? Il contenuto ha un rilievo poco più che nullo quando l’apparenza inganna. E inganna ancor di più quando le industrie, del vino e del cibo, attingono a strumenti aulici.
Ne è stato l’epitome il panino della Mc Donald’s a firma Gualtiero Marchesi; altro esempio di plagio dall’alto è quello dell’austero Carlo Cracco nel proporre “elaborate” ricette a base di patatine San Carlo. E nel vino? Oggi è l’Ais che accompagna l’ultima perdita di dignità del vino giornaliero, con “miraggiose” degustazioni con i vini della Tavernello, notoriamente il vino giornaliero degli Italiani. Tra le “note speziate tipiche del Syrah” e il progetto FAI a fargli da egida, sembra proprio che la Tavernello abbia fatto un passo avanti, soprattutto in termini di vestiario e presentazioni.
Perché i Godzilla dell’enogastronomia, questo gli va riconosciuto, a fagocitare e a far marketing son bravi davvero. E guarda un po’, nel caso della Tavernello il cambio è solo quello dell’abito. Che sembra proprio fare il monaco!
di Raffaele Marini
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