Si manifesta con l’irrefrenabile impulso di mordermi il labbro inferiore. A cui solitamente fa seguito un gusto vagamente dolce-ferrigno. Poi arriva un peso. Hitchcock lo chiamava “nodo alla gola” in una sua pellicola del ’48. E da lì un velo, una patinatura di ruggine congestiona i pensieri. È l’ansia. L’ansia della confessione. L’ansia di doversi fare piccoli e ammettere che loro, il vino, lo fanno meglio. Sì, loro. I Francesi.
Se non lo fanno meglio di sicuro lo vendono meglio o lo raccontano meglio. Insomma un motivo ci sarà se ad una cena tra amici porti una bottiglia di vino francese comprata al supermercato, pescata a casaccio dallo scaffale, l’appoggi sulla tovaglia e boom! Il Sacro Graal. È come la campanella per il cane di Pavlov. Così l’ultimo Beaujolais Nouveau (il nostro vino novello, tanto per capirci) oscura tutti i vini presenti, Barolo e Brunello compresi.
Il segreto del successo dei vini francesi? È come per il terzo segreto di Fatima: l’attrazione per l’ignoto. Perché noi con i vini francesi non ci capiamo una mazza! Il mondo del vino francese è troppo complicato per noi Italiani. Noi Italiani che al ristorante ordiniamo uno “scirazz” o un “refoscolo” (d’altronde quante volte s’è detto che il vino è poesia? Talmente tante che a volte diventa il poeta stesso).
Noi Italiani che, al banco dell’ultimo wine bar glamour, urliamo: “Famme uno Chardonnay!”. E sia chiaro, Chardonnay mica Trebbiano, che suona male e fa poco charme; che poi venga da Bassano del Grappa o da Corleone, poco importa. È Chardonnay! Che te frega dell’annata, dell’azienda e dei territori? È Chardonnay! Ovviamente non solo Chardonnay; una volta ad esempio era il Merlot, ma ora è caduto in disgrazia. Comunque l’importante è che abbia un nome figo e che sia di moda.
E invece loro no. Loro, i Francesi, complicano tutto. Dividono il vino comune per comune, parcella per parcella, filare per filare, grappolo per grappolo. Imbottigliano tutto separatamente e in etichetta mettono il nome del comune, del vigneto, del filare e del minerale di cui è fatta la zolla sotto il grappolo. Ma il nome del vitigno no, quello no (fatta eccezione per quegli infantili degli Alsaziani). E questo, a noi Italiani, “intrippa”. Perché proprio come le canzoni in inglese, le messe in latino e i testi di Battiato, non ci si è mai capito una mazza. È così.
E mentre noi siamo lì per l’ennesima volta a domandarci perché a Montepulciano non hanno piantato il Montepulciano, che invece è stato piantato in Abruzzo, al posto di quel Sangiovese che ci complica la vita ogni volta che ci viene proposto un Nobile, loro, i Francesi, saltellano tra lieu dit, climant, gran cru, premier cru come fossero étoile dell’Opéra Nationale de Paris (che però è italiana).
Ma è inutile negarlo: noi Italiani siamo affascinati dai vini francesi. Ci “tirano più di un carro di buoi”.
Forse è per l’idioma. I nomi dei vini in Francia hanno una sonorità che mette sete solo a sentirli. Se ci si allena a pronunciarli si diventa alti, magri e si rischia di ritrovarsi a passeggiare con una baguette sotto l’ascella. Ed è possibile che rientrando a casa ci si accorga che il bidet è misteriosamente scomparso.
È un discorso di eleganza del suono che a noi manca. Vuoi mettere? “C’est fini de papier toilette” per noi diventa “È finita la carta igienica”; “Je vais acheter les côtelettes” da noi si trasforma in: “Esco a compra’ le braciole!”.
Quello che segue è perciò un fulmineo e sussiegoso scorcio di come viviamo i vini al-di-sù dell’Alpe.
(Ho volutamente tralasciato la Loira e i suoi “vinelli” freschi, fragranti, scintillanti che sono per i poveri. Insieme ai puerili vini Alsaziani e ad alcuni spumanti. Cosucce! Pardonnez-moi).
I Francesi hanno lo Champagne. Champagne è quel nome che rievoca eleganza, classe e i manifesti di Toulouse-Lautrec. E anche chi scrive di Champagne è solenne, austero e a tratti nostalgico. Lo Champagne si fa solo lì, nella Champagne! Origine del luogo, nome del vino. Impossibile scindere. Le montagne del Reims sono i loro Pinot Noir, complessità e struttura. La Vallée De La Marne è i suoi fruttosi Pinot Meunier. La Côte des Blancs significa eleganti e affilati Chardonnay. Zona uguale carattere; è un’equazione inalienabile in Francia, persino più dei diritti umani (ops). E la Champagne non fa eccezione. Sì, poi in Francia ci sono anche i Crémant, ma sono fuori zona e anche questi vanno per i poveri!
Mentre noi, con gli spumanti, come siamo messi? Innanzitutto non li chiamiamo più spumanti dagli anni Ottanta. Per noi sono bollicine. Perché? Perché è glamour.
Poi abbiamo esteso la nostra usuale democrazia orizzontale, giusto per non creare confusione di classe. Così qualunque bottiglia con presenza di carbonica per noi diventa Prosecco. Il Trento Doc millesimato. Un Oltrepò Pavese pas dosé. Il Metodo Classico più fine di Franciacorta. La Cedrata Tassoni. Tutto da noi è Prosecco!
E il Prosecco, quello vero? Quel vino semplice, immediato, rinfrescante, piacevole; quello che sta bene con i fritti e con gli amici. Quello, come lo chiamiamo? Lo chiamiamo Prosecchino.
Va detto che lo Champagne di per sé è un simbolo e anche l’Italiano più radicale, anti-europeista, che il-vino-è-solo-quello-di-casa-nostra, prima o poi, che sia un anniversario, una cresima o un funerale, ci casca in pieno e apre una bottiglia di Champagne, come tutti.
Ma al di là dello Champagne e di questi bevitori casuali, esiste una categoria di Italiani, accaniti bevitori francofili, che è profondamente convinta che questi lo fanno meglio, il vino.
Questa incorruttibile fazione di tecno-assaggiatori però è orientata su due ben precise regioni francesi. Per questi intenditori nostrani il derby in terra gallica se lo giocano Bordeaux e Borgogna. E la scissione è taoista. O bianco o nero.
Bordeaux
Bordeaux è Bordeaux (e Lapalisse ringrazia). E soprattutto è per pochi. Se lo Champagne è classe, Bordeaux è lusso. Questa regione trasuda ricchezza. Qui tutto è lussureggiante, ancor di più se ha a che fare con il vino. Ed è così che persino il più monolitico dei capannoni industriali in cemento armato, grigio e squadrato, se contiene anche 1/2 silos di vino, viene in automatico classificato come Chateaux. E in merito a questo esiste una facoltosa tribù di Italiani per i quali il taglio bordolese è solo di Bordeaux, fanatici del tautologismo puro.
Un collezionista di Bordeaux investe nella sua sontuosa cantina quello che J-Lo ha investito nella polizza che le assicura i glutei. È così, i Bordeauxline sono irrecuperabili; stappano bottiglie che costano quanto la rata mensile del muto di un operaio (vabbé, Once upon time gli operai e le banche che concedevano mutui). I bevitori di Bordeaux gareggiano a chi ce l’ha più caro, il vino nel bicchiere. Scattano selfie a raffica con messa fuoco sull’etichetta, utilizzando Oliviero Toscani come asta telescopica.
I bordeauxline passano ore a spiegarti come il Merlot, che da noi è un sumotori di centottanta chili, su alcune mattonelle della Rive Droite diventi Roberto Bolle. Sia chiaro, non devi esser ricco per bere Bordeaux. Devi essere straordinariamente ricco. Certo, a cercar bene ci sono aziende come Château Le Puy o Château Beaulieu che fanno vini accessibili a tutti e di indubbia bontà, ma come i Cremant e i vini della Loira vanno come obolo ai poveri.
La Borgogna è un’altra cosa. I vini di Borgogna sono liricità del vuoto, la quintessenza dell’intelletto. Sono liquidi platonici. Le vigne in Borgogna profumano di incenso, oro e mirra. Un’Epifenia perpetua. I Francesi lo fanno meglio il vino! Infatti in nessun’altra zona al mondo il vino è territorio come in Borgogna. E i grandi vini sono inevitabilmente territorio. Con quali occhi guardiamo noartri la Borgogna? Per gli appassionati di vino italici questa terra ha effetto lisergico e di sacralità, al pari di Medjugorje per Paolo Brosio.
Dire che non vi piacciono i vini di Borgogna equivale a dire che non vi piacciono le canzoni di Fabrizio De André o la serie tv Breaking Bad. Insomma, il problema siete voi.
Che poi Borgogna. Per gli italo-borgognofili la Côte Chalonnaise, Maconnaise e Beaujolais non dovrebbero nemmeno essere in Borgogna, andrebbero direttamente spostate nella differenziata per i cassaintegrati.
Solo la Côte-d’Or è l’illuminazione del bevitore, la via di Damasco. Per noi Italiani si diventa esperti solo a menzionarla. Ma in realtà per quasi tutti gli abitanti dello stivale, questa terra è indecifrabile e così astrusa da far sembrare semplice un rebus di Piero Bartezzaghi e comprensibili i discorsi di Luca Giurato. Eppure esiste una plèiade di assaggiatori, un’aggregazione di eletti nostri conterranei che sanno e vedono ogni zolla di questo territorio.
Essi si sono risvegliati dal quotidiano bere; ora vivono sulla Nabucodonosor* e sono dei veri enoilluminati; hanno scelto la pillola-rossa-rubino-scarico-tendente-al-granato-con-riflessi-mattone, e ora vedono la verità quella vera. Loro sono gli eletti! Frustrati dal fatto che in Italia il termine ‘zona’ sia relegato solo ad un tecnicismo calcistico, riversano in Borgogna la loro voglia di zonazione. Gareggiano in un’interminabile maratona per discernere i cru più nascosti, quelli da tre filari che sommati non superano la lunghezza di un metro e mezzo, solitamente suddivisi tra quindici diversi proprietari. E per i quali gli eletti riconosceranno alla cieca Domaine, annata, parcella, grappolo, acino. Loro sono gli eletti.
Se vi dovesse capitare di confrontarvi con loro optate per il silenzio. Loro hanno camminato nel Gran Cru bianco di Musigny e in quello rosso di Aloxe Corton, affossando ogni vostra certezza sulla scissione che in questa terra c’è tra rosso solo al nord e bianco solo al sud. Provate ad affermare che lo Chardonnay è il Padreterno nello Yonne e loro vi parleranno della piacevole opposizione del Sauvignon di Saint Bries. Insomma imparerete che il silenzio in questi casi e d’oro. Anzi d’Or.
Fuori ormai l’aria si è irrigidita. Le foglie che hanno resistito al vento sono a contare gli istanti che le dividono da terra. Il cielo è un manto color cenere che inizia a lacrimare in puro stile jazz. Io continuo a pensare ai vini francesi, mentre torno al mio Lambrusco. “Genitori… fratelli… parenti. L’unica e vera alternativa che ci offre la vita sono i vini. No, non gli amici”. Non ricordo di chi sia. So solo che intanto fuori, dalla strada, riecheggiano le sirene del TSO che si avvicina.
*Leggi Vangelo di Marco 3:1. Oppure fai come me e guardi 12 volte Matrix.
di Raffaele Marini
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