La ricetta racconta

Le ricette di cucina raccontano sempre storie più grandi di loro

Le ricette di cucina raccontano sempre storie più grandi di loro; gli ingredienti ci rinviano all’immagine di paesaggi, la loro composizione nel piatto racconta di sapori che spesso conosciamo e ricerchiamo per il nostro palato, ma che descrivono storie moderne e antiche di cuochi che le hanno create. E poi nella ricetta possiamo leggere racconti di storia, le influenze delle culture, le tracce di quella storia più grande che leggiamo nei libri, con i Re, le battaglie, i vincitori e i vinti, e anche il mangiare dei poveri e dei ricchi. È questo che trovo appassionante nella lettura testuale delle ricette.

Addentrandomi in queste letture e studiando da anni la storia della cucina, mi sono spesso imbattuto in curiosi ravvicinamenti tra episodi storici e preparazioni culinarie. Come non leggere nella Sacher Torte, inventata e servita al Congresso di Vienna del 1815, un simbolo della restaurazione, che i potenti dell’epoca imponevano al mondo dopo la tempesta napoleonica? Quella sostanza pastosa e solida, venata dal sapore di amaro realismo del cioccolato, viene ricoperta da una glassa scura e vetrosa, le cui decorazioni richiamano i fregi delle divise militari. L’unico residuo di morbida cremosità e passionalità è affidato a un sottile quasi insignificante strato di marmellata di albicocca, che è poi l’unico tocco che dà un senso accettabile al dolce.

Un altro momento d’incrocio tra cucina e diplomazia l’ho scoperto lavorando a uno spettacolo sulla cucina dei primi Re Borbone di Napoli. Ho deciso di inserire quest’episodio come antefatto capace di spiegare quale cultura gastronomica Carlo III portasse a Napoli. Infatti, l’avvenimento risale al 1701 e ha per protagonista Filippo V che sarà il padre del nuovo Re di Napoli. In quell’anno, dopo lunghe battaglie militari e diplomatiche, il Regno di Spagna passava alla Francia e Luigi XIV, il Re Sole, nominò Re di Spagna suo nipote il Duca d’Angiò col titolo di Filippo V. Il giovanotto aveva appena diciotto anni e gli fu data in sposa la tredicenne Maria Gabriella di Savoia. Temendo possibili “colpi di testa” dei giovani regnanti, fu inviata a corte l’esperta Madame des Ursins, un’italiana della famiglia degli Orsini, che sarà un’informatrice di Re Sole presso la corte Madrid. Ma proprio a Madame des Ursins si deve un grave incidente culinario. L’evento si svolge a Figueras, in Catalogna, sul confine tra Francia e Spagna. Occorre considerare che ora come allora i Catalani erano ferocemente indipendentisti e nelle guerre per la successione del regno di Spagna si erano schierati contro la Francia. Dopo le nozze celebrate nella Cattedrale si organizzò un banchetto; Madame des Ursins aveva pensato a un menù per metà spagnolo e per metà francese.

Ricostruzione di un banchetto alla presenza di Filippo V, la Regina e Madame des Ursins.

Per il peso dei piatti e con varie scuse, nessun pietanza francese raggiunse la tavola. La cosa irritò la giovane Regina che, non sentendosi protetta nell’occasione dal focoso marito, gli negò per ben tre giorni il letto coniugale. È certo che nelle cucine era stata ordita una vendetta politica e un ultimo gesto d’indipendenza. Ora noi non abbiamo notizie dei menù proposti, ma la lettura di due preparazioni simili dell’epoca, ci consente di capire le differenze tra le due cucine. Si tratta di due modi di cucinare un pollo allo spiedo, contenute in due importanti ricettari dell’epoca: L’arte di Cucina e Pasticceria del cuoco reale Martinez Montiño, del 1637, e il Nuovo Cuoco Reale e Borghese di Francois Massaliot, pubblicato nel 1691.  Occorre notare che la dizione Borghese, non si riferisce a una cucina delle classi medie, ma a quella dei nobili dei borghi di campagna.

 Proviamo a leggere le due ricette:

1) Pollo arrosto nella sua salsa (dal ricettario spagnolo)

Si arrostisce un pollo allo spiedo. In una padella si friggono dei dadi di prosciutto. A parte si pestano dei chicchi di agresto (acini d’uva ancora acidula), che si gettano con il loro sugo nella padella, alzando due o tre volte la fiamma, non di più per evitare che brucino. Aggiungere zucchero, cannella e pepe e un po’ di aceto. Si dispongono i pezzi di pollo su fette di pane tostato e ci si versa sopra la salsa.

Cosa ci racconta questa ricetta? Innanzitutto, la sua evidente derivazione da una cultura gastronomica medievale- rinascimentale. La presenza dell’agresto è tipica del medioevo, non escluderei nel caso specifico della Spagna, anche un’influenza della cucina arabo-andalusa con il ricorso al Verjus, succo di uve acide, tipico di quella cultura. Medievale- rinascimentale è il sapore agrodolce della salsa. L’elemento grasso è dato dal prosciutto che si scioglie nella padella, l’elemento liquido è fornito da due componenti prevalentemente acide dell’agresto e dell’aceto, i sapori dolci sono affidati allo zucchero e cannella, che insieme al pepe, rappresentano ancora il ricorso a costose spezie, segno di distinzione ed esibizione di ricchezza, tipico della cultura gastronomica rinascimentale d’influenza italiana. Si può notare anche la separazione delle cotture del pollo e della salsa, dovuta anche alla separazione degli strumenti: lo spiedo e la padella. È ancora questo un retaggio di cucina medievale. Il pollo cotto allo spiedo diventa inevitabilmente abbastanza secco e tale resta sulle fette di pane, mentre la salsa versata sopra cerca di compensarne l’asciuttezza.

Vediamo ora la corrispondente ricetta francese.

2) Polletto al prosciutto (dal ricettario francese)

Prendete dei polletti, svuotateli e preparateli per la cottura. Tagliate delle fette di prosciutto, per ogni polletto e battetele un poco; aggiungete un po’ di prezzemolo e cipolla tagliata fine. Con le dita staccate la pelle dalla carne, a partire da sopra lo stomaco. Infilate le fette di prosciutto tra la pelle e la carne e fate in modo che restino intere. Ammorbidite i polletti vicino al fuoco, mettetegli una bardatura di lardo, avvolgeteli nella carta e fateli arrostire allo spiedo. Una volta cotti, levate la bardatura, fate una buona salsa al prosciutto da versarvi sopra, e serviteli caldi.

Ricetta di salsa all’essenza di prosciutto: bisogna avere piccole fette di prosciutto crudo, batterle bene e passarle in una casseruola con un po’ di lardo fuso; mettetelo a sudare avendo un cucchiaio in mano, e fategli prendere colore con un po’ di farina. Quando è colorato, mettete un buon sugo di carne un bouquet di cipolle ed erbe fini (era un misto di aromi messo in un sacchetto per filtrare), dei chiodi di garofano, uno spicchio d’aglio, qualche fetta di limone, un pugno di funghi champignon affettati, delle fette di tartufo e qualche crosta di pane e un filo di aceto. Quando il tutto è cotto, passatelo nella stamina, e mettete questo succo in un luogo pulito.

In edizioni più tarde la salsa per i polletti si arricchirà di aggiunte di ragout e coulis di prosciutto.

Cosa ci racconta quest’altra ricetta? Ci parla di una cucina molto raffinata e complessa, nella quale ogni ricetta ne rinvia ad altre (nel nostro caso a una salsa di essenza di prosciutto, che a sua volta presuppone la preparazione di un sugo d carne) per costruire la composizione finale. Nella Francia del Re Sole, nasceva una nuova cucina francese che soppiantò la tradizione rinascimentale italiana, che aveva influenzato la gastronomia francese nel secolo precedente attraverso due regine della famiglia Medici che sposarono i re di Francia. Quella tradizione aveva ormai perso la sua spinta innovativa e di ricerca, anche a causa della frammentazione degli stati italiani che l’aveva in qualche modo “regionalizzata”.  La base della nuova cucina francese erano le salse, i potage (se ne contano centinaia) e l’idea di restituire, attraverso i brodi ristretti e le salse, i sapori alle sostanze che, nella cottura, li perdevano. Molte famiglie nobili francesi inventavano salse e potage, cui davano il proprio nome come uno stemma distintivo.  

Il secondo elemento caratteristico della ricetta di polletto al prosciutto è l’assenza di spezie, che si limitano a pochi chiodi di garofano. Anche questo deriva da un importante fatto storico. Nel secolo XVII, molte nazioni come la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda costruiscono le loro compagnie commerciali delle Indie orientali. In pratica si vanno a prendere, tra gli altri prodotti, le spezie direttamente alla fonte, saltando la costosissima intermediazione degli Arabi. Così le spezie costano poco e non sono più un segno di opulenza da esibire e, di conseguenza, sono usate in cucina solo nella misura in cui servono. Vengono invece diffusamente utilizzati, i prodotti locali come i funghi, il tartufo, il prezzemolo.

È certo una cucina molto attenta alla cura delle preparazioni. Ad esempio, abbiamo visto che per evitare la secchezza del petto del pollo cotto allo spiedo, s’interpone una sostanza grassa e aromatica tra la pelle e la carne e poi, attraverso la bardatura, si evita di perdere i sughi di cottura. Notiamo anche l’apparizione di termini come sudare, l’indicazione dei tempi di cottura e della forza dei fuochi.  Questo deriva da un’importante innovazione tecnologica che nasce in Francia in quel secolo: il Potager.

È un piano di cottura caratterizzato da più fuochi che, un po’ come le nostre cucine economiche, attraverso dischi di ghisa concentrici, consentono di regolare il contatto della fiamma con le pentole. Gli stessi forni che fanno parte del mobile, permettono di cucinare a diverse distanze dalla fonte di calore di legna o carbone. È questa tecnologia che permette la grande differenziazione delle preparazioni e la nascita della nuova cucina francese nel ‘600.

Possiamo quindi immaginare la scena che si sarà svolta nelle cucine di Figueras. Da un lato, c’erano i cuochi spagnoli alle prese con i loro antiquati piatti e, dall’altro, quelli francesi impegnati a preparare intingoli complessi e raffinati. Penso che a dominare i sentimenti spagnoli, oltre agli intenti politici e indipendentisti, ci fossero la difesa di una tradizione e molta invidia verso l’abilità dei colleghi francesi. Per questi ultimi possiamo immaginare il dispiacere di non veder serviti i loro piatti, ma anche un grande senso di superiorità, forse manifestato con un po’ di spocchia verso i cuochi spagnoli.

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Fabrizio Mangoni

Fabrizio Mangoni è architetto e docente di Urbanistica presso l’Università Federico II di Napoli. Gastronomo, esperto di dolci (sua la teoria che compara i caratteri umani ai dolci), da anni si occupa di cucina ed enogastronomia. Autore e conduttore di programmi televisivi tra cui si ricordano: “Di che pasta sei?” con Raffaella Carrà per Rai Due; “Scrupoli”, con Enza Sampò, sempre su Rai Due.

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