In questo lungo e necessario periodo di quarantena, pur nel “piacere” delle introspezioni e delle ricerche, quello che più mi è venuto a mancare è stato il momento di convivialità che è essenziale a tutti noi per sentirci “abbracciati” dai nostri simili che, allegri e chiacchieroni, si ritrovano intorno ad una bella tavola imbandita. Mi manca il piacere di condividere con i miei amici le idee ed il gusto di una pietanza che rappresenta, almeno per me, meridionale fino alle ossa, un modo di amare.
Sì, mi sento orfana dei miei amici, dei nostri incontri, delle nostre risate, dei nostri discorsi, a volte un po’ oltre i decibel consentiti e di quella rumorosità che fa tanta allegria.
Il piacere dell’ospitalità nasce da lontano e mi deriva da mia madre che ha sempre fatto in modo che nessun incontro prandiale fosse un “mordi e fuggi”. A casa mia, la tavola è sempre stata una “festa”, la nostra festa dell’incontro” che la quotidianità non ha mai reso ovvia ne’ banale.
Quanto questo sia dovuto alle origini, quanto al dna, non so, ma sicuramente i Greci sempre fedeli a Zeus Xenios hanno fatto la loro parte e il richiamo all’ospitalità, per noi meridionali, è stato tramandato, nella lirica dei comportamenti, come un motivo di base, un segreto trattenuto dalla nostra cultura, per cui anche il piatto più povero diventava unico per sapore e qualità. Gelosia ed orgoglio ne sono gli ingredienti.
In Puglia, ex Magna Grecia, in pace e in guerra, nell’amore e nella morte, il piacere gastronomico è sempre stato l’invitato d’onore.
Se le dominazioni degli Arabi, dei Normanni, degli Angioini, degli Svevi, degli Aragonesi, degli Spagnoli e dei Francesi che si sono sovrapposte nella rincorsa di una storia mai noiosa e ripetitiva, hanno aggiunto sapori e lasciato tracce, nel camminarvi sopra, i miei viaggi e le mie esperienze ne hanno tratto fonte di ispirazione.
Ho imparato da persone sempre speciali, davanti a un paesaggio che mi ha colpito il cuore, incuriosita da un profumo che mi è arrivato nel profondo. Colore, sapore ed umore mi hanno fatto subito intendere le asprezze del linguaggio autoctono e rubare con gli occhi e con il palato i segreti di una cucina antica.
L’amore per la gente mi ha portato ad assaporare i profumi di nuovi mondi, a gustare le sue spezie, a condividere la semplicità genuina dei suoi sorrisi.
Oggi nel mio bagaglio di piacere per la cucina si nasconde l’amore per i miei cari e per le persone che mi hanno accompagnato in questo percorso alla scoperta di tanti sapori diversi eppure così vicini al mio cuore.
Le mie ricette, pur legate alla geografia del territorio, sono l’espressione ed il frutto di una tradizione famigliare legata alla sua storia, intrisa delle sensazioni e dei momenti che mai casualmente hanno segnato il suo cammino.
A tutto ciò si aggiunge l’ingrediente principale: l’amore che spinge a cucinare non per il cibo in se’, ma per il sorriso che vediamo stampato sui volti dei nostri commensali.
In particolare, in questa primavera che avanza nonostante l’incombenza malefica di un virus sconosciuto, le fragranze della stagione ci inebriano più che mai e, dalla mia finestra che guarda il mare, il profumo di salsedine mi invade, mi restituisce e rinvigorisce il gusto semplice dei doni della natura.
Il mare è il mio amico di sempre, dalla natia Trani, alla mia casa di oggi, al mio buen ritiro greco: è il componente essenziale della mia cucina.
Proverò a trascinare i miei… 25 lettori (perdonate la citazione manzoniana!) in un viaggio culinario che li farà registi di uno spettacolo ove i raggi del sole e i sapori del mare prenderanno consistenza grazie all’ immaginazione ed alla creatività.
Mi piacerebbe riuscire a comunicare non un elenco di ingredienti da assemblare ma trasportare nel sogno, tra miti e leggende, tra sensazioni e libido, tra storia e fantasia, perché niente nasce per caso e qualsiasi sarà il prodotto finito, esso sarà sempre la sintesi non casuale di un dono della natura e dell’amore che si metterà in cucina… E il mare? Lasciamoci trasportare da questa “alta marea”, dai profumi che ci assalgono, dall’aria che sa di buono e dall’ispirazione che ne scaturirà.
Girando per i porti mediterranei, per i mercati locali, negli angoli nascosti delle coste, ricci, cozze e polpi, sono i frutti più frequentemente pescati non solo dai pescatori di mestiere ma anche da quelli occasionali. La capacità che hanno le persone del posto di trasformarli in qualcosa di libidinoso, è, però, unica.
Bisogna chiudere gli occhi e gustarli nel pieno del loro sapore: ricci, cozze e calamaretti crudi (i cosiddetti allievi) sono di un gusto sensuale che, passando per il palato, prende l’anima e la trasporta verso la voluttà. Tutto il Mediterraneo fa di queste semplici offerte l’anteprima di qualsiasi incontro culinario.
Essi sono i punti forti del felice rito dell’aperitivo o, se in barca, di una pausa tra una caletta e un’altra o, semplicemente, di uno stop voluto mentre si passeggia sul lungomare. Accompagnati da un buon prosecco ghiacciato annunciano le meraviglie che verranno.
Se come gli Angeli potessimo volare lungo le coste del mediterraneo, dove ancora sopravvivono usanze e cibo legato alle tradizioni, non ci stupiremmo di trovare frequentemente rivendite ambulanti di frutti di mare e di mitili in particolare. Il lungomare di Napoli ne è un esempio. Grossi vassoi rotondi presentano in bella mostra le cozze, che non possono non attirare l’attenzione del turista. Se si va ancora più a sud le cozze vengono anche presentate aperte e sono bella mostra in vassoi in cui scorre continuamente acqua di mare. Lungo le strade di Istanbul, polis per eccellenza si vendono come street-food, già ripiene per le strade antistanti il Bosforo o nei vicoli della città.
Mi ricordo che da piccola era una vera goduria andare al porto di Trani a comprare o a mangiare le cozze. Nel meridione non esiste un solo tipo di mitile. Mio padre impazziva per le cozze pelose, ora difficilissime da trovare così come le cozze penne. Le cozze pelose si distinguono dalle nere perché hanno proprio una copertura sulle valve, un vellutino che le ombreggia di un colore marrone brunito. Particolarmente amate dai pugliesi perché non sono di allevamento e il gusto deciso e marcato non è contraffatto o modificato da altri sapori.
Poi ci sono le cozze penne, enormi, impressionanti, che, nel mio girovagare, ho ritrovato in un periodo fuori stagione, anche in Grecia. Anche queste hanno un sapore forte e, in realtà, ne è vietata la pesca. Vanno cotte sulla brace, ma in altri tempi si mangiavano anche crude.
Ma il piatto che più di ogni altro mi riporta alla mia infanzia è la “tiedda” pugliese altrimenti detta riso patate e cozze.
Ogni Pugliese ha i suoi segreti per la preparazione di questo splendido connubio di sapori assolutamente estivi e mediterranei che, intrisi di rosso, nero e verde, rimandano ad alcuni quadri naives o di Guttuso, insomma un trionfo di colori che attivano, attraverso gli occhi, le papille gustative.
E’ un piatto che adoravo fin da bambina, ma che mia nonna e, ancora prima di lei, la mia bisnonna, si facevano sempre pregare per prepararlo perché: “figghia mia, è troppo lavoro”.
Il lavoro, effettivamente c’è e una mezza giornata di preparazione ci vuole tutta, anche perché, quando si decideva di prepararlo, certamente la famiglia era tutta al completo.
Insomma o perché veniva tanto desiderato o perché non era un piatto della quotidianità, era il mio preferito.
In Puglia ognuno rivendica l’autenticità della propria ricetta battagliando con vera forza nei simposi culinari.
I punti di maggiore diatriba sono:
Io riferisco passo passo la mia preparazione e vi assicuro il risultato. La tiedda è fatta a strati, sul fondo del tegame mettere un po’ di olio, una metà cipolla tagliata ad anelli, ma non troppo sottile e condita con un po’ di prezzemolo e pepe.
Ora mettete le patate tagliate in tondo ma non troppo alte e ricoprite tutta l’ampiezza del tegame, condite con prezzemolo, pepe, poco aglio, un po’ di pomodori rossi spezzettati (pochi), parmigiano (in famiglia l’abbiamo sempre preferito), olio e pochissimo sale.
Intanto lavate e pulite molto bene le cozze, a crudo (cioè non in tegame), preoccupandovi di lasciare scorrere l’acqua in un contenitore e lasciando il frutto attaccato ad una valva (questa è un’operazione difficile per chi non ha dimestichezza con i frutti di mare).
Il riso superfino arborio nel frattempo deve essere messo a bagno con l’acqua di rubinetto così da togliere l’amido e rendere migliore l’amalgama con i vari ingredienti.
Ora mettete le cozze nel tegame con la valva rivolta verso le patate e il frutto nella parte superiore. Condite le cozze con prezzemolo, parmigiano, poco pomodoro e olio.
Scolate il riso dall’acqua e conditelo con olio in abbondanza, poco pomodoro, prezzemolo, poco aglio, parmigiano e l’acqua che ho precedentemente filtrato delle cozze.
Il riso così condito lo mettete sopra le cozze in uno strato abbastanza basso.
Per ultimo aggiungete un altro strato di patate e la metà rimasta di cipolla tagliata finemente e condite il tutto con parmigiano e il pangrattato, olio, sale, pepe e po’ di pomodoro spezzettato.
A questo punto si aggiunge un bicchiere e mezzo di acqua al margine del tegame e si inforna a 180/200° per ca 1 ora.
Se volete aggiungere le zucchine (anch’esse tagliate a rondelle) alla maniera baresana, potete farlo in modo abbastanza parco insieme agli strati di patate.
Il piatto è un primo e un secondo insieme, ma vi assicuro che è un tripudio di piacere degli occhi e del palato.
Buon appetito!
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