di Raffaele Coppolino
Lavorare troppo fa male davvero?
A dimostrare quanto il benessere del cuore subisca gli effetti di una mole di lavoro troppo pesante, provocando in molti casi anche insonnia, depressione e problemi fisici cronici, negli anni sono stati tantissimi studi.
Una ricerca della Melbourne University, derivante da un sondaggio effettuato su un campione di 6.500 lavoratori australiani e pubblicata sul The Guardian, ha infatti evidenziato che dopo i 40 anni è bene lavorare solo 25 ore a settimana.
Nel 2015, una ricerca pubblicata sulla rivista “Lancet” sostenne addirittura che fosse sufficiente lavorare un’ora in più ogni giorno per veder salire del 10% il rischio di incappare in ictus nei successivi otto anni e mezzo.
Una garanzia di longevità dunque, l’iniziativa dell’amministratore delegato di Unilever Nuova Zelanda, Nick Bangs, che nel mese di dicembre, ha scelto di sperimentare per i suoi 81 dipendenti la settimana “corta”.
A partire dalla scorsa settimana, gli impiegati della multinazionale titolare di 400 tra i marchi più diffusi nel campo food and beverage, ma anche igiene e cura della casa, stanno sperimentando la possibilità di lavorare quattro giorni, guadagnando comunque per cinque.
L’esperimento, come qualcuno potrebbe temere, non prevede che le ore perse il quinto giorno vengano spalmate nei restanti quattro, infatti come precisato al Financial Times dallo stesso Bangs, in questo modo si perderebbe il focus.
“Crediamo che i vecchi modi di lavorare siano obsoleti e non più adatti – ha dichiarato l’amministratore delegato – Si tratta di cambiare radicalmente il nostro modo di lavorare”.
L’obiettivo principale dell’esperimento, della durata complessiva di un anno, condotto in collaborazione con la Business School dell’Università di tecnologia di Sidney, resta quello di misurare le performance e non il tempo di lavoro.
Se il risultato dovesse essere positivo, a guadagnarci non sarebbe solo l’azienda. Oltre alla produttività infatti a trarre vantaggio dalla nuova condizione di lavoro sarebbero soprattutto salute e felicità del lavoratore.
Che in tempi di pandemia possa essere utile se non indispensabile rivedere i modelli di lavoro e incoraggiare le proprie risorse è indubbio.
Lo scorso maggio infatti anche il primo ministro neozelandese Jacinta Arden si era espressa a favore dell’implementazione delle settimane lavorative di quattro giorni, al fine di migliorare l’equilibrio tra vita lavorativa e privata e incentivare il turismo interno per sopperire alla mancanza di turisti stranieri. Sulla stessa lunghezza d’onda, ad agosto è stata la volta di Sanna Marin, primo ministro finlandese.
In occasione del 120esimo anniversario dello SDP, la più giovane leader di governo del mondo, si era spesa per promuovere la riduzione dell’orario di lavoro a quattro giorni settimanali, ciascuno di sei ore.
Notizia fresca di questi giorni è invece che anche l’esecutivo spagnolo stia prendendo in considerazione la possibilità di ridurre a 32 ore in 4 giorni l’impegno professionale.
Avanguardia? Nient’affatto.
A prevedere che entro il 2030 la tecnologia sarebbe avanzata a tal punto da consentire alle persone di impiegare al massimo 15 ore a settimana in ufficio e aumentare comunque esponenzialmente la produttività fu, nel lontano 1930, l’economista britannico Maynard Keyens.
Sebbene della stessa opinione fosse nel 1956 anche l’allora vicepresidente degli Stati Uniti Richard Nixon, l’amministratore delegato di Unilever Nuova Zelanda, ha espressamente dichiarato di aver tratto ispirazione dalla Perpetual Guardian, società locale di pianificazione immobiliare.
Andrew Barnes e Charlotte Lockhart, proprietari del gruppo finanziario, erano infatti saliti alla ribalta delle cronache nel 2018 quando scelsero di sperimentare per i loro 240 dipendenti un giorno di ferie a stipendio pieno.
L’esperimento, che aveva condotto ad un aumento della produttività di oltre il 20% e non meno importante, a un maggiore livello di soddisfazione dei dipendenti, all’epoca li aveva promossi a primi promotori della settimana cortissima.
Così devoti al nuovo modello di lavoro, hanno anche dato vita alla fondazione no profit “4 day week”, che per sua stessa ammissione, ha influenzato anche la scelta di Nick Bangs.
Sebbene in pochi lo ricordino il precedente più famoso risale però a circa 30 anni fa, quando Volkswagen, in accordo con IG Metall, per tutelare l’occupazione, tentò il taglio del 20% dell’orario di lavoro in cambio di una riduzione salariale più limitata.
La storia che si ripete dunque, come è successo d’altronde anche l’anno scorso per i dipendenti di Microsoft Japan che hanno sperimentato con grande successo e non meno importante con un calo del 23% dei costi dell’elettricità, il venerdì libero pagato.
Se il 2020 non è stato l’anno migliore, chissà che l’esito del test in Nuova Zelanda non sia così positivo da garantire per l’anno prossimo a tutti i dipendenti del colosso nel mondo, un nuovo modello di business.
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