Anima e cuore.
Così doveva essere Salvatore Di Giacomo.
Troppa anima e troppo cuore per non abbandonare gli studi di medicina che il padre avrebbe voluto per lui e inseguire la sua vocazione vera: raccontare storie, scrivere e, spesso, scrivere d’amore.
Osservatore attento, studioso, giornalista, saggista, ma soprattutto poeta come pochi, capace di lasciare al mondo sogni che non invecchiano.
…Era de maggio; io no, nun mme ne scordo,
na canzone cantávemo a doje voce.
Cchiù tiempo passa e cchiù mme n’allicordo,
fresca era ll’aria e la canzona doce…
Da Roberto Murolo a Luciano Pavarotti, da Massimo Ranieri alla Piccola Orchestra Italiana di Renzo Arbore, non si contano gli interpreti italiani che sulle note di Mario Pasquale Costa hanno cantato i versi di Era de maggio, poesia tra le sue più belle diventata canzone senza tempo, una delle tante perché i versi di Salvatore Di Giacomo erano e sono perfetti per lasciare immaginare amori infiniti, promessi, perduti e mai dimenticati.
Proprio come Marechiaro, poesia che sembra lui non amasse poi particolarmente, ma anche questa diventata un classico senza tempo del grande repertorio musicale napoletano.
Senza tempo, proprio come la foto che state guardando.
Lo sapete ormai, il cibo immaginario è fatto di suggestioni e di memorie, ma anche di luoghi.
Ebbene, ‘a Fenestella a Marechiaro è uno di questi.
Una finestra piccola, a qualcuno forse insignificante e anonima, ma i fiori che spesso la abbelliscono e quella strofa della canzone incisa nella targa appena sotto, ricordano che è qualcosa di più.
Salvatore Di Giacomo andava spesso a mangiare nel borghetto che come una freccia tesa nell’arco della vita. dalla cima della collina di Posillipo getta la vista ad abbracciare Capri e il profilo inconfondibile del Golfo.
Anima e cuore era Salvatore di Giacomo e certo l’una doveva stringergli l’altro quando Carulì che chi dice ca li stelle só’ lucente, nun sape st’uocchie ca tu tiene ‘nfronte si affacciava alla fenestella proprio sopra la trattoria dove lui andava a mangiare.
Era il 1886 e Carulì, all’anagrafe Carolina Anastasio nata il 10 novembre 1863 e moglie dell’oste Carmine Cotugno, nel fiore degli anni di una vita che la vide andar via troppo presto, doveva essere bella da struggergli l’anima e il cuore e lui, da poeta, fermò quegli attimi per sempre.
E così, complice la bellezza di un panorama che commuove e la suggestione dei versi in musica, da Marechiaro l’amore non se n’è mai più andato.
E neanche la trattoria, diventata nel tempo ristorante, e che di amori ne deve aver visti tanti.
Proprio come quello di loro due che oggi ci guardano da una foto sopravvissuta al tempo, fresca come se fosse stata scattata ieri, con occhi neri che ti fissano passando oltre e che ti ricordano che loro ci saranno sempre.
È del 1951 la foto, sessantacinque anni dopo Carulì, sessantanove anni prima di oggi che ne stiamo parlando noi, ma si sa, il tempo per l’amore è un accessorio variabile e indefinito.
Non mi sono ancora spiegato effettivamente come accada, ma le cose ti trovano e scelgono loro quando farsi trovare, e questa fotografia si è fatta trovare così, in maniera apparentemente casuale, in un’asta telematica.
Non so da dove venga, non so chi siano loro due, ma immagino che da qualche parte un giorno sia arrivato uno svuota cantine a far pulizia e a portare via ricordi ingombranti che forse non parlavano più a nessuno.
Non era quello il destino di questa foto. Non ancora.
Non so chi siano, ma la foto ci racconta una piccola storia fatta di deduzioni, di tracce estetiche, una piccola storia comune a quella generazione, un piccola storia che è la grande storia dell’Italia che si rialzava in piedi.
La Napoli della guerra si toccava ancora con mano e nel 1951 palazzi sventrati e macerie raccontavano la carne viva dei circa 200 bombardamenti subiti tra il 1940 e il 1944 e delle circa 25.000 mila vite che le bombe si erano portate via.
La Napoli della guerra raccontata ne La pelle di Curzio Malaparte, l’arcitaliano sintesi della contraddizione di se stesso e dell’Italia intera, la Napoli dei shoe-shine, i ragazzini che facevano sopravvivere le famiglie lustrando anfibi e gabellando gli americani, i Sciuscià raccontati da Vittorio De Sica che con quel film, nel 1948, portò l’Oscar a un’Italia che di ferite aperte ne aveva ancora tante.
La Napoli della guerra raccontata con gli occhi degli altri da Norman Lewis, ufficiale dell’intelligence inglese, che con Napoli ’44 ne ha lasciato un diario straordinario da cui, nel 2016, il regista Francesco Patierno ha tratto un bel documentario.
Ebbene, i due che ci guardano dalla foto, di quella Napoli e di quel tempo sono figli.
Volti intensi, sguardi senza nessuna rassegnazione, perché nell’amore non c’è posto per la rassegnazione.
Nella sua camicia bianca, perché solo di quel colore potevano essere a quel tempo, curato e fresco di barberia, lui ha il viso di conosce la fatica e gli anni di chi la guerra l’ha fatta veramente, sfiorando la morte chissà come e tornato chissà quando, magari rimasto prigioniero chissà dove o forse sbandato dopo l’8 settembre, con una divisa buttata da qualche parte o invece mantenuta per rimanere al Sud, con il Re, o rivestita per salire al Nord, con il Duce, o abbandonata per proseguire la sua guerra in montagna e finirla una volta per tutte con le guerre.
Una storia italiana, niente di più, eppure tanta storia.
E lei, con il suo vestito a fiori che sono speranza e voglia di vivere e di futuro, i suoi capelli fatti in casa che sembrano difficili da domare quasi quanto forse il suo spirito, il suo viso aperto, il sorriso accennato quasi fosse il pudore a impedirgli di allargarlo del tutto, lei che ne deve aver viste tante, con una guerra che l’ha trovata giovane ma non così piccola da fargli dimenticare in fretta e che in quegli occhi deve aver lasciato impresso di tutto.
Hanno pranzato al ristorante, hanno finito probabilmente, sulla tavola sembra essere rimasto del pane, la bottiglia di vino rosso è piena a metà e dalla sfocatura della foto sembra essere uscita da una ghiacciaia, perché il vino rosso del Sud, carico di sole e di terra forte, si beveva rinfrescato prima che una certa tendenza gourmet ne riscoprisse il piacere in anni recenti.
Hanno pranzato al ristorante, forse era domenica o forse un giorno di festa, e il ristorante non era uno qualunque.
È il ristorante dove Salvatore Di Giacomo aveva scritto di Carulì, che si affacciava e intravedeva dietro ‘a fenestella, il ristorante a Marechiaro dove quanno spónta la luna…pure li pisce nce fanno a ll’ammore….
Il ristorante dove gli innamorati, da allora, guardando il mare, con la luna che si specchiava o con il sole che bruciava, con la scusa di andare a mangiare si promettevano amore.
Loro due lo sanno quello che vogliono, sono lì anche per quello.
Lo dicono gli sguardi, lo dice la mano.
Guardatela la mano di lei, è una mano che sovverte i canoni, o forse li conferma.
È lei che s’impegna a proteggere lui, è il suo braccio sulla spalla che lo renderà forte nella vita, lei si fida di lui e s’impegna per la vita a sostenerlo, lui lo sa e per lei farà le sue scelte, si rimboccherà le maniche, forse abbasserà la schiena per lavorare la terra o per recuperare una rete in mare, per fare qualunque lavoro mai senza dignità, mai senza sacrificio che lei gli renderà leggero, mai senza amore.
Tra i due è lei la più forte, una forza che sovverte i canoni dell’apparenza che assegnano il compito all’uomo, ma che invece affonda nel tempo e nell’archetipo della Grande Madre, la forza generatrice e rigeneratrice della donna.
Quella mano sulla spalla è un pegno d’amore che vale una vita, prezioso come una promessa senza prezzo.
Scétate, Carulí’, ca ll’aria è doce… quanno maje tantu tiempo aggi’aspettato?!
Chissà se si sono aspettati e quanto tempo, chissà quanto tempo è servito prima che si trovassero e si scoprissero, chissà chi dei due ha aspettato di più e chi dei due l’amore se l’era immaginato proprio con quel viso, quello sguardo e quelle mani.
Non so nulla di loro, della loro vita prima della foto e di quella che hanno vissuto dopo e chissà, magari qualcuno vedendo questa foto li riconoscerà e ci potrà raccontare qualche cosa di più.
In qualche modo, però, da quando ho trovato la foto e ho iniziato a immaginarmi la loro vita, li sento ormai familiari e senza conoscerli ho affetto per loro, che probabilmente non ci sono più.
E se andate a Marechiaro guardatevi intorno, magari li vedrete tornare ancora insieme, per nulla sconfitti dal tempo, con la camicia bianca, il vestito a fiori e le mani a promettersi amore.
Non so come siano andate le cose, ma forse non serve.
Spero che abbiano vissuto come si sono promessi.
Questo può bastare.