Bodega Bruno Ruiz. Il Vino tra i mulini a vento
Al-Mansha nell’arabo che gli diede il primo nome come “terra secca”. Basterebbe questa indicazione per fotografare l’osticità di questa mattonella di terra, irrorata da tremila ore di sole l’anno, per un calore a cui la pioggia miseramente riesce a porre interruzione con un apporto pluviometrico di appena 350 millimetri di acqua ogni 365 giorni. La collocazione centrale la rende irraggiungibile da quella che potrebbe essere la rinfrancante umidità dei venti oceanici. 30.700 impietosi chilometri quadrati di vigna su questa griglia arroventata che è la più grande regione vitivinicola al mondo, a cui è stato negato ogni compromesso climatico: l’implacabile guisa riarsa che la brucia e la forgia l’estate, è inversamente proporzionale al feroce inverno continentale che gli sta di petto. Il divario creato da questa cesoia è di 45° contro i meno 15 invernali. L’altitudine aumenta, lenta e tenace, partendo dai 480 metri al nord fino a raggiungere i 700 metri al centro, con picchi limite di 800. Qui la terra è calcarea, gessosa, argillosa, arenaria e, come se servisse, a suo emblema a tratti raggiunge il colore rosso del fuoco. I mulini a vento smussano tanta durezza, donando quel visionario, rivoluzionario romanticismo che rese celebre questa terra attraverso gli scritti di Cervantes. Questa è la Mancha.
La viticoltura qui ha origini antiche. Riconosciuta ufficialmente come D.O. nel 1932, Castilla-La Mancha si posiziona tra le denominazioni più vecchie di Spagna. Non bastano la secchezza e l’alta insolazione, che rendono al minimo gli attacchi batterici, a preservare questa terra dall’isterilimento dell’industrializzazione. La necrotizzazione di quel patrimonio, chiamato in un linguaggio mondiale terroir, senza la sua irripetibile unicità, ineluttabilmente perderà di ogni significazione. E la Mancha non è sconnessa da questo concetto, in una logica che vede 20.000 viticoltori a fronte di appena 260 cantine-bodegas e dove l’unico obbiettivo diventa quello della massimizzazione del rendimento. Il “mulino a vento” della massificazione coatta non trova nessun supporto in Julian Ruiz Villanueva. Di padre allevatore e madre agricoltrice di fronte alla prospettiva della vita spezza schiena dei campi, Julian, progetta un altro destino: per sé preferisce lo studio, trasferendosi a Madrid e laureandosi in scienze sociali. Non sarà il sogno di Dulcinea, ma le necessità famigliari ad imporre a Julian di cambiare la rotta che aveva prestabilito.
Bodega Bruno Ruiz. Il Vino tra i mulini a vento
Tornato a Quero diventerà agricoltore. Inizialmente le colture erano meloni e peperoni, ma l’identità di Julian si svela già all’aurora, non lasciando spazio ad altre forme di allevamento che non fossero il biologico. Il reddito ricavato dalle colture orto frutticole servirà ad acquistare il primo vigneto, che nel ’98 costituirà l’avvio della sua storia come produttore di vino bio. Insieme alla vigna Bodega Bruno Ruiz produce il famoso aglio nero, mentre altri 100 ettari sono dedicati alla coltivazioni di erbe officinali. L’apparenza delle cose, così come sono ne La Mancha, non inganna Julian, che applica un’ostinata resistenza di velluto, rifiutando con fermezza ogni uso di prodotti invasivi in vigna ed in cantina, applicando fermentazioni spontanee e spesso, molto spesso, senza aggiungere solforosa.
Beatifica la sua terra, a giustizia di un territorio, con la biodinamica; bandisce ogni forma di meccanizzazione e, in maniera particolare, respinge l’idea della costruzione di una nuova cantina, partendo da un concetto essenziale quanto dimenticato dalle nuove realtà glamour, che il vino per il 90% almeno, si fa all’aperto. L’età dei suoi vigneti oscilla dai 25 anni ad una buona parte ultra centenaria, per arrivare a quella parcella di ottomila metri dov’è impiantato il Tinto Velasco: qui la vigna, con i suoi 150 anni, diventa un Highlander. Per questa varietà unica nella zona, le rese, che definirei “alla genovese” per il sordido araldo attribuito a questa regione, oscillano da un minimo di 82 ad un massimo di 2 ettolitri per ettaro. Se la Spagna è già nel firmamento dei grandi vini con nomi come Pingus e Vega Sicilia, il De Sol a Sol, pound for pound, non è da meno…
De Sol a Sol da uve Tinto Velasco 2012 Bodega Bruno Ruiz
Agli occhi: colore di una compattezza impenetrabile; monocromatico, tendente al nero più che al rosso, non lascia spazio a sfumature.
Al naso: mirto, poi mirto e dopo un po’ esce il mirto… L’avevo già detto? Erbe officinali e garriga, corbezzolo, prugne e olive cotte. China, da scriverci buona parte del Don Chisciotte. E poi genziana.
In bocca: demolisce quanto si è detto da almeno due decadi in merito alla concentrazione nei vini; infatti se è l’esecrazione l’unica considerazione da destinare alla masticabilità indotta da pratiche come osmosi inversa, roto-maceratori, manno-proteine, pugni atomici rotanti, mcr e via di seguito, per i vini di Bodega Bruno Ruiz questa regola non vale. La stratificazione sudista del De Sol a Sol, è sostenuta da una sapida speziatura incorniciata dal garbo di un tannino per nulla ingessato. Il De Sol a Sol mantiene celato il mistero per il quale anche la “massa”, quando è concepita nel rispetto del naturale, non perde di agilità, anzi.
All’orecchio: si sentono chiaramente le pale dei mulini a vento!
Spezzata quella legge definita inviolabile per cui un numero infinito di prodotti seriali, fabbricati spingendo sul massimo quantitativo possibile, fosse capace di garantire un futuro più dignitoso all’umanità, basandosi su quel miraggio chiamato sviluppo e sul miracolo definito industria, possiamo dire con fermezza che Bodega Bruno Ruiz manifesta la sua autenticità attraverso una diversificazione figlia del concetto di un’agricoltura contadina in totale contrasto con il modello industriale. Industria che, ricordando le parole di qualcuno in un passato neanche troppo lontano, “è stato progresso soltanto per morte e schiavitù”.
“Nel mondo oggi più di ieri domina l’ingiustizia, ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia; proprio per questo, Sancho c’è bisogno soprattutto d’uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto…”. (F. Guccini)
Mi piace pensare questo come tributo all’ultimo romantico de La Mancha, che è riuscito nell’ardito compito di abbattere quei Giganti nei mulini a vento: a Julian e ai suoi vini.
di Raffaele Marini