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Caciofiore della campagna romana

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Caciofiore, un nome per un formaggio che porta intrinseco il suo “segreto”. Si narra nel mito, che Dafni fosse un pastore bellissimo e amato dagli Dei e dagli uomini. Figlio di Ermete e di una ninfa, aveva eletto la Sicilia come sua dimora prediletta; a lui fu attribuito il canto bucolico col quale narrava la beltà della natura e della terra. E proprio la Terra, straziata dal dolore per la sua morte precoce, fece nascere a sua perpetua reminiscenza il fiore magenta del Cynara Cardunculus. Noi lo conosciamo come cardo selvatico, una pianta diffusissima in tutto il Bacino del Mediterraneo, compresa la nostra penisola. L’Agro Romano, la campagna tipica che circonda la capitale, nonostante lo scempio che palazzinari vecchi e nuovi stanno compiendo a danno di un habitat irripetibile, parco giochi di cementificatori ad oltranza di bestemmie urbanistiche, contro cui si scagliava già la denuncia politica di Pasolini, lo ha eletto da tempo ad emblema della sua peculiarità.

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La campagna dell’Agro Romano, un tempo pascolo di greggi, oggi oggetto di cementificazione.

E forse non è un caso che proprio il caglio ottenuto dal suo fiore, venga da tempo immemore utilizzato per trasformare il latte in formaggi. Lucio Giunio Moderato Columella, il maggiore esperto di agricoltura nell’antica Roma e autore del trattato “De Re Rustica”, afferma già nel 50 d. C. che “…conviene coagulare il latte con caglio di agnello o di capretto, quantunque si possa anche rapprendere con il fiore di cardo silvestre o con i semi del cartamo o col latte di fico. In ogni modo il cacio migliore è quello che è stato fatto col minimo possibile di medicamento”. Sembra precursore dell’agricoltura e dell’allevamento biologici Columella, oltre che antesignano di un caglio diverso da quello di cardo selvatico o di fico, a riprova che quest’ultimi fossero una pratica di caseificazione quotidianamente diffusa già due millenni or sono.

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Pier Paolo Pasolini, celebrato “cantore” dell’Agro Romano e fautore di denunce politiche del suo scempio. Credit photo: Secolo Trentino.

Caciofiore della campagna romana

Oggi il ricorso al caglio di cardo o di carciofo è invece un’eccezione, ma sempre più spesso un’eccezione di qualità. O almeno lo è nel caso del Caciofiore della campagna romana. È una sorta di antenato del Pecorino Romano, ma la sua caratteristica è di utilizzare solo latte di pecora, crudo e intero, coagulato dal caglio ottenuto dalla fermentazione degli stami di fiore di cardo selvatico. Una produzione di nicchia, tanto da rientrare nel Presidio Slow Food della provincia di Roma e tanto da essere realizzato solo da quattro produttori, impegnati nella reiterazione della tradizione antica. Oggi il cardo è più spesso coltivato che raccolto selvatico, ma i tempi e le modalità di realizzazione del caglio vegetale rimangono gli stessi: raccolti solo nelle giornate più soleggiate e secche della stagione estiva, quando hanno assunto una colorazione viola intenso, i fiori di cardo -da qui caciofiore- vengono appesi a testa in giù dalla parte del gambo e lasciati ad essiccare per venti giorni al buio.

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Il fiore del Cardo selvatico, tipico dell’Agro Romano

Solo dopo questo lasso di tempo si possono sfilare delicatamente gli stami per conservarli sottovuoto, così da essere utilizzati a tempo debito per comporre il caglio. Al resto pensa quella natura così tanto celebrata da Dafni nei suoi canti: la macerazione degli stami per 24 ore nell’acqua, il filtraggio e l’aggiunta al latte che, grazie all’azione proteolitica degli enzimi del fiore, lo fa coagulare, ottenendo la cagliata. Questo è il primo passo verso il Caciofiore della campagna romana, formaggio dell’antica Roma, dalla pasta morbida e saporita, aromatizzata non solo dalla presenza del caglio vegetale, ma anche dall’alimentazione delle pecore, rigorosamente di razza Sarda e Comisana. Il sapore del Caciofiore è intenso, lievemente amaro, avvolgente ma non grasso sulle pareti del palato; la sua crosta grinzosa e tendente al giallognolo, racchiude una pasta dalla bella occhiellatura e dalla cremosità sorprendente.

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Pecore Comisane, il cui latte è prevalentemente utilizzato per il Caciofiore. Credit Photo: Fondazione Slow Food

La stagionatura del Caciofiore della campagna romana va dai trenta agli ottanta giorni, riposto negli appositi locali di invecchiamento dopo essere stato salato con sale marino ed aver assunto la forma tipica di una mattonella quadrata di dieci centimetri per lato. La lavorazione del Caciofiore è ancora prevalentemente manuale, soprattutto per evitare lo sviluppo delle muffe sulla superficie. Dicevamo che sono solo quattro i produttori che realizzano il Caciofiore della campagna romana così come richiede il disciplinare rigoroso del Presidio Slow Food, e sono principalmente produttori che allevano le greggi e lavorano il latte nella campagna a nord di Roma, nella zona del lago di Bracciano; parliamo ad esempio di Sergio Pitzalis o dell’Acquaranda a Trevignano, dell’azienda agricola Martignano a Campagnano Romano; ma anche del Caseificio De Juliis a sud di Roma.

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La pasta morbida e avvolgente del Caciofiore della Campagna Romana

Fino a qualche tempo fa la produzione del Caciofiore si estendeva anche alle Marche e all’Abruzzo, probabilmente in un periodo in cui la transumanza era la regola vitale dell’allevamento di greggi ovine, che trascorrevano i mesi estivi nelle montagne di queste regioni, per poi tornare a svernare nell’Agro Romano da Ottobre a Giugno. È per questo che il periodo in cui si produce il Caciofiore è proprio quello autunnale e invernale, salvo particolari deroghe riconosciute a chi ancora pratica la transumanza in alpeggio.

di Tamara Gori






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