Cinque Terre. Tra terrazzamenti, basilico DOP e Pesto genovese.
“…E il profumo dei fiori alati
e la freschezza delle ore
della rugiada e il dolce calore lasciato dal giorno
erano sparsi sulla fulgida baia…”
–Righe scritte nella Baia di Lerici– di Percy Bisshe Shelley
Ci sono terre impervie, dure maestre di vita. A tratti le ami. Altre le maledici con tutte le tue forze. Sono terre che non si svendono al miglior offerente; non cedono alle mani carezzevoli o alle adulazioni del più lusinghiero dei Casanova. Si lasciano conquistare a fatica, col sudore della fronte e il vigore di muscoli forti e incorruttibili. Senza ornamenti barocchi le Cinque Terre in Liguria si raccontano attraverso le loro pietre e i terrazzamenti che digradano verso il mare.
Terrazzamenti, Pesto e Basilico.
Colline scolpite dalla tenacia e dall’amore di chi le ha vissute, rispettandone l’asprezza e l’asperità. Una terra accarezzata da mani sapienti, depositarie di segreti di un’agricoltura lontana negli anni che ha attinto dai rivoli della tradizione per custodire quelle rocce. Una terra solo in seguito usurpata e abusata nella sua bellezza immensa da speculatori senza coscienza, da un profluvio di cemento che ne sta modificando in maniera fatale i contorni e la stabilità. Quelle coste frastagliate, spesso raggiungibili solo via mare, una volta protette dai terrazzamenti, oggi sono spesso malversate da smottamenti e dissesti figli di una deferenza del territorio che sembra ormai dimenticata. Vecchia, arcaica, desueta. Come tutto ciò che appartiene ad un passato in cui le generazioni degli anni ’70 sembravano non riconoscersi più.
E contemporaneamente il richiamo verso la modernità aveva l’odore e il colore grigio della cemento, dell’asfalto; delle automobili che si voleva far sfrecciare su quelle panoramiche, o delle ville arrampicate con pervicacia sulle colline lussureggianti e facoltose delle Cinque Terre. Ma la Natura è disobbediente; spesso rivoluzionaria; quasi sempre anarchica. Non soggiace agli interessi economici e non riconosce quelli politici. Per questo le Cinque Terre, già agli inizi del 1800, erano la meta scoperta e mai abbandonata di poeti romantici come Lord Byron, Percy Bisshe Shelley, Edward John Trelawny. Quella natura selvaggia, pericolosa, ribelle, rifletteva perfettamente l’ideale indomito della poesia romantica. Shelley, più di ogni altro, si legò per sempre alle Cinque Terre, perché qui morì; in mare, proprio di fronte a quelle coste cui tante odi aveva dedicato.
Con tutto il trasporto del suo anticonformismo, con l’audacia del suo ideale di attivismo politico e di disobbedienza civile, fu ispiratore del più grande non-violento che la storia dell’umanità ricordi: il Mahatma Gandhi spesso citò La Maschera dell’Anarchia di Shelley nei suoi discorsi; e la sua idea di resistenza passiva è nelle poesie di Shelley che getta le ancore del suo bastimento. È qui che il poeta inglese trova appagamento al suo ideale sofista di vegetarismo di cui fu strenuo assertore e difensore, ispirandosi al sensismo dei sofisti di Protagora e al concetto pre-animalista di Voltaire. La ruvidità delle Cinque Terre, come il più accogliente dei ventri materni, ha saputo generare quanto era bastevole alla salute e alla sopravvivenza umana: le erbe. Tutta la cucina tradizionale di questa terra trova fondamento sull’utilizzo di erbe spontanee e aromatiche, che in questo speciale microclima hanno individuato il loro ecosistema esemplare. Fragile, ma esemplare. Caccialepre, songino, borragine, maggiorana, pimpinella, ortica, dente di leone; queste e molte altre sono le erbe spontanee che ne costituiscono il cuore pulsante.
Pesto e Basilico
Molte di queste erbe sono ormai conosciute solo dalle più anziane abitanti delle Cinque Terre, ancora forti nell’arrampicarsi indomite sui terrazzamenti e chinarsi a riconoscere, tra i vigneti più scoscesi d’Italia, le erbe delle antiche conoscenze culinarie della Liguria. E la Torta Pasqualina, con le sue mille varianti le raccoglie tutte. Ma probabilmente ciò che rappresenta emblematicamente le Cinque Terre e la Liguria tutta è il basilico. Dalle foglie piccole, raccolte a cucchiaio, così da concentrare essenza e clorofilla. Pestato a mano in un mortaio di marmo, conservato come reliquia in ogni famiglia ligure tradizionale, si concede nella sua massima entità quando si sposa con l’olio di oliva Taggiasca.
Anche questa cultivar è figlia di una terra baciata dalla fecondità della natura, generatrice di un olio profumato, che richiama il mare ma anche le erbe aromatiche, in un filo conduttore ancestrale che tesse una trama invisibile all’occhio umano, ma percepibile ai suoi sensi. Il pesto diviene così simbolo evocativo di una terra. E non può essere altrimenti. Perché il Basilico Genovese DOP è rigidamente regolato da un disciplinare e da un consorzio che ne suggella: esposizione, rigorosamente verso il mare; raccolta: esclusivamente a mano, su assi di legno; tipologia: giovane e fresco, di cui utilizzare le prime quattro coppie di foglie.
Il posto
E il pesto non è “alla genovese”, ma è Pesto Genovese! Nel primo caso si rischia di comprare una mistura di qualunque cosa, con utilizzo di olio di semi, ricotta o anacardi. Il vero pesto genovese richiama una ricetta antica quanto queste terre, magica amalgama di 7 ingredienti: 50 grammi di Basilico Genovese DOP (Ocimum Basilicum), mezzo bicchiere di olio della Riviera Ligure, 6 cucchiai di Parmigiano Reggiano DOP, 2 cucchiai di Pecorino DOP, 2 spicchi di aglio, per esaltare l’olio essenziale liberato dal basilico, 1 cucchiaio di pinoli, quelli italiani (più costosi, per sconfessare lo storico braccino corto dei Genovesi), sale grosso.
E la pasta? Le trofie naturalmente. Perché un territorio sa raccontarsi attraverso quello che sa donare, nella sua totalità e nella storia che ne ha fatto quello che è oggi. Tutto il resto è noia.
di Tamara Gori