Donne in cucina, un claissico! Quotidianamente osservo lo schermo piatto che propina ricette appetitose, elaborate, creative, gustose, insomma straordinariamente buone; è il festival no-stop dell’ingordigia, nel quale vengono elaborati piatti prelibati e succulenti da mani sapienti di chef piacioni, egotisti e teatranti, accompagnati sovente da confortevoli presenze femminili. In questi programmi televisivi gli sponsor promuovono i loro brand con modalità subdole, discrete, quand’anche non ostentate e la fascinazione gastronomica agita da taluni protagonisti, permea anche le abitudini culinarie più consolidate degli spettatori.
Fascinazione che, sebbene significhi utile sollecitazione per i mestoli più impigriti, in altro verso risulta essere un vero e proprio condizionamento per milioni di donne che s’adoperano a cucinare i pasti nelle nostre case. Molte di queste donne, meravigliose, appartengono ad una generazione che nel corso della vita ha dovuto sopportare tanto, indigenza, maschilismo, discriminazione, esclusione, violenza; si sono comunque caricate del peso sociale a loro imposto del contemperamento del tutto. Con forza e pragmatismo femminile hanno armonizzato il tutto; lavoro, marito, figli, genitori, casa, vestiario, alimentazione, malattie, svago e via dicendo.
Donne in cucina: frustrazioni culinarie
Queste donne, tutti i giorni e da diversi decenni, fanno la spesa, puliscono verdure, preparano sughi e salse, lessano legumi, assemblano arrosti e spezzatini, friggono pesce, impastano, elaborano minestre, fanno dolci e ciambelloni e preparano caffè. E’ un Lavoro che assolvono quotidianamente e a fronte del quale percepiscono una congrua retribuzione; condicio sine qua non per una forma di contratto sociale che, diversamente, non potrebbe sussistere. Ora formattate le vostre menti. E immaginate gli effetti provocati da un’astensione dal lavoro casalingo delle donne; abitazioni ridotte a luridume, bagni che evocano vetuste iconografie di latrine, letti in disordine, scene di individui errabondi e mentalmente assenti in totale deliquio tra banchi del mercato e scaffali di supermercati, rapporti tesi ed esacerbazione.
Un vero e proprio nocumento sociale. Non serve uno sguardo avvezzo alle relazioni sindacali per comprendere la giustezza di questo accordo economico tra le parti. A fronte di una o più prestazioni professionali si percepisce un emolumento, un compenso; non fa una piega. In verità la piega c’è, eccome se c’è. Poichè l’accordo non c’è, non esiste. Le donne dentro casa fanno, e fanno senza percepire alcuna retribuzione. Queste donne, ed anche quelle più giovani, vittime dello stress che ammanta le loro giornate, tutte queste donne sono i veri chef del millennio; ogni giorno s’ingegnano nell’arte culinaria senza aver frequentato corsi di cucina, piuttosto facendo tesoro dei segreti tramandati a voce, sul campo. Inventando di volta in volta la pietanza che dovrà essere buona e che non dovrà annoiare troppo i cari affettuosi commensali. Una missione impossibile.
Questi cattivi pensieri hanno dominato la mia mente dalla scorsa settimana, quando mi trovavo in un mercato rionale di Roma e, tra i banchi di frutta e verdura, ho avuto la fortuna di assistere alla conversazione (che meriterebbe una sceneggiatura per una pièce teatrale), tra un’attempata ed opulenta massaia e la sua amica di spesa, altrettanto prestante. Non mi sento di rovinarla, commentandola sopra, perciò ve la offro così come l’ho ascoltata. Buona lettura.
“Adelà, ma ‘ndovevi pià pure i broccoletti?”
“C’hai ragione Ermì, sarà mejo che li pio”
“Guarda questi, me parono proprio belli”
“Sì, Adelà, anche se te dico…. nà delusione ieri sera a cena”
“E perché tesò?”
“Che je devo pesà altro signò?” (il fruttivendolo impaziente prova a sciogliere la conversazione) -“E n’attimo Orè, nu o vedi che stò a discorre”
“Nun ve incomodate signò, fate con calma” (chiosa l’uomo con voce tantrica).
“Insomma, tu o sai che io e Arvaro annamo matti p’a cucina nostra, quella romana, e solo dio o sa’ quanto ce piaceno i rigatoni ch’a pajata, li fò tutte le settimane”
“Lo so, lo so Adelà, viè qua spostamose n’attimo, e allora?”
”E poi noi nun rinunciamo mai alla porchetta, alla coda, alla trippa, bona mmh; insomma ce piace magnà così, ormai so’ cinquantanni che nun se sdirazza”
“E vabbè, pure noi n’è che magnamo troppo diversamente tesò, perché te pii pena?”
“Perché iersera ho voluto preparà na cosa diversa, ‘o veduta ‘ntelevisione a ‘nprogramma de cucina, l’ha fatta ‘ncuoco bravo; ho pensato, hai visto mai che ce possa piacè pure a noi…e poi che ne so, p’e cambià”
“E c’hai preparato mai ahoo?”
“Era ‘npiatto coi gamberi, cucinati co er riso thai e er burro ghi nel latte di cocco, e poi guarniti co’ striscioline de wakame e sarsa tamari.”
“E che madonna Adelà, quello né npiatto, è ninciucio, come quelli politici”
“Ma no Ermì, è ngran piatto, solo che quanno s’èè trovato davanti Arvaro, ha fatto na faccia e poi m’ha detto: -a Adelà me fa’ piacere che te mantieni giocosa, gente allegra dio l’aiuta, ma perché o’ devi sempre fa ncazzà a quer poro gatto, daje nun ce scherzà, aridaie a cena sua e noi magnamose a nostra-. Hai capito Ermì come s’è ngannato?”
“E te credo Adelà a passa’ da a pajata a quello è come passà dar fa’ l’ammore ar pettinghe, nun ce stai; e allora com’è annata a finì? ”
“Che ie dico: ma no Arvà, n’hai capito bello, questa è a cena nostra è na cosa diversa, dopo tutta sta fatica ch’ho fatto pe prepararla, ricordete pure che c’avemo l’LDL a 190, comunque er gatto ha già magnato. E però lui m’ha risposto: -ma che me stai a cojonà?- Vabbè, comunque dopo l’avemo magnata sta roba, era bona, per carità, ma Arvaro, per rifasse a bocca ha voluto che je facessi du spaghetti ajo e ojo, e a quer punto mii so magnati pure io….che o lasciavo a magnà da solo, poretto”.
“Hai fatto bene Adelà, tanto noi c’avemo i palati a sto modo, ignorante, tocca dirlo, nc’è niente de male, mo annamo che ho da passà dar pizzicarolo a vedè se je arrivato er lardo de colonnata, c’ho da fa na bella minestra oggi, vojo sta più leggera che ieri nte dico che me so magnata”
-”Annamo, annamo che so già le dieci e mezza”.
Meravigliosa scena di ordinaria frustrazione popolana.
di Cibaria