È vero, sarei dovuto andare avanti con il nostro viaggio tra cibo e fumetto.
È vero, di cose da raccontare ce ne sono ancora molte, ma complice il caldo estivo e la coincidenza di un post pubblicato qualche giorno fa su Facebook da un amico che intendeva sottolineare la linguisticamente poco ortodossa abitudine di chiamare anguria il cocomero, variante regionale la prima, termine nazionale il secondo, di cibo e fumetto parleremo più avanti e oggi ci dedichiamo ad altro. Oggi parleremo di cocomero e della sua versione cinematografica forse più straordinaria, che nel Pantheon del nostro cibo immaginario ha una posizione di assoluto rispetto.
Il cocomero dell’estate è un simbolo a tutto tondo; frutto stagionale, appare a maggio con il primo caldo e sparisce a settembre, portandosi via il ricordo delle giornate di afa estiva di cui è stato spesso sollievo.
Diffuso in tutta Italia con circa 50 varietà e diversi nomi regionali, diciamolo chiaramente: a Roma, il cocomero non solo ha una personalità, ma è una personalità, e ha un suo demiurgo, er cocomeraro, protagonista senza tempo di strade e notti romane, e scusate se di scriverlo in italiano non mi viene.
Ebbene, alla luce della dovuta premessa, può forse apparire più chiaro come mai una colonna di quella romanità bonaria che credo manchi un po’ a tutti, intorno al cocomero ha costruito una narrazione che, seppur a settanta anni di distanza, offre ancora oggi motivi di sorriso e spensieratezza.
Il cocomero e la famiglia Passaguai
Aldo Fabrizi di Roma è un figlio eccelso, come lo sono stati Anna Magnani e Alberto Sordi, che nei loro caratteri e nei tipi umani ai quali hanno dato volto, gesti e voce hanno fatto rispecchiare tutta l’Italia. Così come ha fatto Totò, di cui Aldo si onorava di essere profondamente amico. Più che attori, archetipi italiani che dovrebbero essere studiati in una scuola non ossessionata dalle materie stem e dai banchi monoposto.
Aldo è di origini semplici e conosce presto la durezza della vita; perso il padre quando è ancora poco più che bambino, si ritrova accanto alla madre che ha un banco di frutta al mercato di Campo di Fiori e a fare i lavoretti più disparati per aiutarla a tirare su anche le sue cinque sorelle.
Delle sue origini, Aldo farà la sua forza e proprio lì dentro troverà spunti e suggestioni per caratterizzare i personaggi ai quali darà volto da attore, ma esperienza e comprensione di vita.
Ebbene sì, attore.
Giordano, il frate eretico la cui statua domina Campo de’ Fiori e guarda verso San Pietro come ultima sfida alla Chiesa che proprio lì lo mandò al rogo, vedendo Aldo sgambettare e crescere tra i banchi del mercato deve aver pensato per lui un destino diverso.
Forse è per questo che, passando per poesia e avanspettacolo, Aldo si trova a fare l’attore, per decenni tra i più amati dal pubblico anche quando non te lo aspetti, come a Broadway, dove nel 1964 dopo avergli visto interpretare il boia Mastro Titta in Rugantino, la critica americana lo definisce comic genius.
Versatile, capace di leggerezza e ironia, così come di essere maschera di umanità che sopporta traversie e angherie della vita Aldo, che fa ridere, sorridere e come solo un grande attor comico riesce, fa anche piangere nei suoi ruoli più drammaticamente umani, alla sua veste da attore affianca presto una smisurata passione per il cibo e per quel mangiare che non è un mero bisogno fisiologico, ma ritualità quotidiana della vita e dello stare insieme, unità di misura di passioni, amori e affetti, familiari, amichevoli o clandestini che siano.
Poteva il nostro cocomero sfuggire alle suggestioni di Aldo Fabrizi, proprio a lui, romano del cuore di Roma cresciuto al banco di frutta e verdura di Campo de’ Fiori? No, non poteva.
Ispirato dalla novella Cabina 124 di Anton Germano Rossi, autore irriverente che vede nell’umorismo un mezzo a disposizione dello scrittore e non un minor lignaggio dello scrivere, dopo essere stato diretto con crescente successo da Mario Bonnard (Avanti c’è posto, Campo de’ Fiori), Roberto Rossellini (Roma città aperta) e Alessandro Blasetti (Prima comunione), Aldo arriva alla sua seconda prova di regia nel 1951 con La famiglia Passaguai, che peraltro produce anche.
Il cocomero e la famiglia Passaguai e la domenica al mare
E qui arriva il nostro cocomero che, insieme ad attori come Peppino de Filippo, Ave Ninchi, Luigi Pavese, il teatralissimo Tino Scotti, l’appena quindicenne Carlo delle Piane e allo stesso Aldo, del film è protagonista assoluto.
I Passaguai sono una classica famiglia romana, popolare con tre figli a carico della dignità del lavoro borghese di Giuseppe, il capofamiglia con le fattezze di Aldo.
La mamma Margherita, vero comandante di casa è la magistrale Ave Ninchi; Gnappetta, ovvero Giancarlo Zarfati è l’allora ragazzino prodigio del cinema italiano, abilissimo a fare equivoche pernacchie; il mediano è Carlo delle Piane, che si chiama Gino ma che per tutti è Pecorino – nome da cui Carlo non si staccherà più e che alternerà con quello di cicalone che prenderà in Un americano a Roma -; la grande in età da matrimonio è Nita Dover, alle prese con un fidanzato un po’ pedante.
In un ruolo e con tematiche simili, Ave Nichi aveva già dato bella prova di sé l’anno precedente in Domenica d’agosto di Luciano Emmer.
Siamo nel 1951, l’Italia vive la fatica di rimettersi in piedi, qualcuno ne uscirà con grandi guadagni, altri inizieranno a vivere bene e altri ancora sopravvivranno nella speranza, incrollabile in quegli anni, di vivere presto meglio.
Giuseppe Passaguai ha un lavoro borghese e di una modernità assoluta; dirige l’ufficio pubblicità di una ditta che fa estratti di verdura, con prodotti i cui nomi echeggiano di réclame futurista come Carotin, Sadar e Cavolet, la cui derivazione ortofrutticola è lampante e che si avvantaggiano di pay off in rima baciata – Carotin salva la milza, il cuor e l’intestin, ad esempio – e di un lay out visuale che, per quanto si possa vedere nelle scene girate in ufficio, richiama molto da vicini gli stilemi delle donnine pubblicitarie di Gino Boccasile e Franco Mosca.
Accade quindi che, in una calda domenica d’agosto, le vicende della famiglia Passaguai s’intrecciano con quelle dei vari personaggi che popolano la ditta dove lavora Giuseppe che, dando pratica attuazione a una visione dopolavoristica maturata negli anni trenta e che oggi preferiamo chiamare welfare aziendale, sono tutti decisi di usufruire della convenzione che consente ai dipendenti della ditta di godere di uno sconto presso uno stabilimento balneare di Fiumicino.
Una precisazione in questo caso è dovuta perché, mentre Giuseppe Passaguai chiede espressamente i biglietti sconto per lo stabilimento di Fiumicino, e lo stabilimento balneare dove si dipanano le nostre vicende domenicali è invece il Florida, proprio a Fiumicino il luogo di arrivo della corriera che da Ponte Flaminio porta i nostri eroi al mare è invece piazza Cesario Console, a Ostia..
Un piccolo bug, forse dettato da esigenze sceniche o forse giustificato dal fatto che Ostia e Fiumicino sono attigue e, a quel tempo tutte e due Comune di Roma di cui erano il mare; così come un piccolo bug è quello che vede Peppino de Filippo, alias ragionier Mazza, da zelante travet meridionale proporre all’avvenente segretaria della ditta di andare con lui a godere della bellezza del Mar Mediterraneo, assai più bello del Mar Adriatico, quando del Mediterraneo l’Adriatico è specchio orientale.
La domenica al mare, per la famiglia romana degli anni cinquanta, però non inizia all’arrivo in spiaggia, ma qualche ora prima, in cucina.
È in cucina, infatti, che di prima mattina l’intera famiglia Passaguai è mobilitata per preparare i fagotti, il pranzo da portare dietro e da consumare sotto il sole o all’ombra di un ombrellone, dentro una cabina o al riparo di un’incannucciata, ovunque fosse arrivata la convenzionale ora di pranzo.
Il menù, con le sue fettine panate, le melanzane e i peperoni fritti, ma nell’olio buono, quello della Sabina come dice Giuseppe, è una sorta di stress test per i trigliceridi ma, per fortuna, c’è il cocomero, da portare con cura e preservare da equivoci scambi al punto di intaccarlo prudentemente in superficie con un segno che lo renderà inconfondibile rispetto ad altri.
Caso vuole che la stessa domenica, nello stesso mare e nello stesso stabilimento della nostra famiglia Passaguai e di tutti i dipendenti dell’innominata ditta, capiti anche una coppia di età oggi indefinibile, con un maturo e austero marito che ambisce più al cocomero che all’abbronzatura, Alberto si chiama e di lui non sappiamo altro se non che è impersonato da Luigi Pavese, caratterista di grande spessore della commedia all’italiana.
Ecco, anche qui, serve una precisazione.
La commedia all’italiana è una grande rappresentazione scenica e corale del nostro Paese, con un suo linguaggio narrativo originale e con finzioni sceniche ricorrenti.
La famiglia Passaguai, pur collocandosi negli anni di esordio del genere, non ne è classificabile tout court come appartenente, perché in un certo senso lo precede e lo travalica.
La famiglia Passaguai ripercorre il movimento narrativo e scenico delle comiche e del cinema muto, affidando gli sketch che si rincorrono l’uno con l’altro senza soluzione di continuità alle espressioni e alla gestualità degli attori, alle sottolineature musicali e a una fotografia che vede all’opera Mario Bava, prossimo maestro ineguagliato del film horror e fantastico italiano.
Nella surrealtà del nostro universo narrativo il cocomero, agognato, perso, ritrovato e mai mangiato, perfettamente tondo nella sua livrea verde scuro senza striature che lo fa pensare provenire dalla varietà toscana della Val di Chiana, ha il profilo di un atavico oggetto del desiderio e diventa perno delle scene e delle relazioni che si instaurano tra i personaggi e le loro vicende.
Tra Alberto e Giuseppe, con il co-protagonismo eccezionale del ragionier Mazza, si susseguono scene esilaranti e verissime, culturalmente figlie del neoralismo che Aldo Fabrizi da attore aveva ben conosciuto e che ora reinterpreta in veste di regista, facendone però una sorta di spin off in stile fusion.
Come non riconoscere l’appartenenza al vero dell’assalto alla corriera per arrivare al mare, dei fagotti con il mangiare – da cui la sarcastica derivazione di fagottari, con il quale venivano appellati i pendolari delle domeniche estive con pranzo al seguito -, della buca profonda da fare in spiaggia per conservare al fresco il cocomero grazie alla sabbia bagnata, salvo non perdere il segno lasciato in superficie come accade ai nostri, e perfino del timore di vedersi rubare abiti e averi lasciati dentro la cabina affittata per l’occasione rischiando di tornare a casa in costume, cosa a più d’uno veramente accaduta.
Nota sublime è poi quando la premurosa Ave Ninchi, per proteggere Aldo Fabrizi dalle scottature, inizia a spalmargli sulle spalle l’olio dei peperoni e, alle sue rimostranze, gli rinfaccia che come aveva detto lui, è quello bono.
Non ne ho certezza, ma ho fondati sospetti che anche questo, sulle spiagge di quello stargate temporale che sono stati gli anni cinquanta, possa essere realmente accaduto.
Insomma, evasione pura, senza fronzoli ma con essenza e significato, con un cocomero agli onori delle scene perché, come recita il cartello bene in vista dar cocomeraro dove Alberto compra qualcosa come otto cocomeri senza riuscire a mangiarne neanche uno, cor cocomero ce magni, ce bevi e te ce lavi er grugno.
Alla fine delle vicende, che vedono la nostra famiglia Passaguai tornare a Roma a remi via Tevere, con i vestiti stracciati nella ressa finale, perso il portafoglio e anche il lavoro di Giuseppe, la voce sorniona di Aldo Fabrizi ci regala una massima di saggezza popolare e ci ammonisce dicendo che… comunque questo serva da lezione a chi vo’ fa’ na gitarella ar mare. Pe sta tranquilli s’ha da fa’ attenzione a tante cose, ai pacchi der mangiare, a nun portasse appresso l’ombrellone, a nun sbajà cabbine né pallon,i e poi n’artra cosa principalmente…nun rompe li cocomeri alla gente.
La famiglia Passaguai avrà un vastissimo successo di pubblico, con diverse edizioni anche all’estero e Fabrizi ne trarrà due ulteriori episodi girati in rapida successione, proprio per sfruttare commercialmente il successo del primo.
La visione del film è godibilissima anche adesso, magari nel riposo di una domenica d’estate, con una fetta di cocomero con cui mangiare, bere e lavasse er grugno ma, soprattutto, senza dimenticare di nun rompe li cocomeri alla gente, regola aurea che, con l’occasione, mi sentirei di destagionalizzare ed estendere preziosamente all’anno intero.