Sei stato a Venezia e non hai mai bevuto lo spritz? In Sicilia e non hai fatto colazione con il cornetto farcito di cremolato di fragola? Sono rimasto senza parole quando gli amici livornesi mi hanno parlato del Ponce. Mi hanno fatto sentire in colpa. Non è stato sufficiente chiedere cosa fosse perché le risposte si sono limitate a spiegare che non si trattava del Punch, la bevanda nota a tutti, al mandarino a alla china, che abbiamo bevuto a volte d’inverno in montagna o per cacciar via l’influenza.
Per superare l’imbarazzo ho deciso fosse necessario andare a Livorno e allora tutti si sono messi a disposizione per accompagnarmi al “Civili”, il bar famoso per il Ponce.
Civili, il bar più famoso per il Ponce
In prossimità della stazione centrale, in una strada secondaria delimitata da edifici a due piani, povera di negozi, il bar Civili, indicato da una insegna non particolarmente vistosa, sorprende il visitatore che ha l’impressione di entrare in una grotta ad archi e travi con un soffitto occupato da una miriade di stalattiti triangolari ovvero centinaia di gagliardetti che le squadre di calcio si scambiano all’inizio delle partite. Una sorta di gran pavese senza lo sventolio delle bandiere.
Un’altra sorpresa è la mostra di quadri di sicura qualità artistica, opera di postmacchiaioli livornesi da Natali a Romiti.
All’ingresso c’è il bancone del bar e la macchina del caffè, ma il locale prosegue con una successione di piccoli ambienti che conducono ad un grande giardino dove, ulteriore sorpresa, persone di tutte le età giocano a carte chiacchierando senza gridare. Non giocano a bridge, ma si divertono con giochi certamente più popolari. Anche nel giardino fanno bella mostra altri gagliardetti.
Dopo aver ordinato il Ponce ho chiesto spiegazioni al barista . “Ponce” mi dice “non punch che gli inglesi pronunciano paaaanch con il quale il nostro Ponce non ha parentela perché, secondo la ricetta ufficiale è una mistura di rum delle Antille, succo di limone, spirito di noce moscata, arak e acqua bollente”.
Arak o Arrakè un’acquavite in uso presso popoli orientali ottenuto per distillazione del riso germinato in acqua e fatto fermentare in presenza di sugo di palma o melassa di canna. In realtà i livornesi hanno sostituito l’acqua con il caffè ed il rum delle Antille con un incerto “rum di fantasia” prodotto a Livorno.
Ma perché si pronuncia ponce?
L’etimologia è incerta ma con ogni probabilità si tratta di una deformazione dialettale dell’inglese punch. Lo stesso colto turista letterato inglese William Black conferma la matrice anglofona di questa parola entrata nel gergo comune. Tuttavia è suggestivo accettare che ponce abbia a che fare con il poncio che Garibaldi indossava quando passò per Livorno.
Il barista raccomanda che il rum non sia raffinato ma ricordi in qualche modo il liquore che una certa letteratura fa bere alla marmaglia che frequenta le bettole dell’America caraibica. La mistura scaldata al vapore come si fa per il cappuccino o per il punch, riempie un bicchiere appoggiato in un supporto con il manico che permette di bere senza scottarsi le mani ma solo le labbra se non si sta attenti.
La ricetta del ponce alla livornese trasmessa oralmente recita così:
in un bicchiere basso largo e spesso, mettete due cucchiaini di zucchero e una dose di “rumme” da correzione (quasi metà bicchiere) o di “rumme e brandy”o di “rumme e sassolino”. Non adoperate mai il Rhum di pregio perché rovinereste il ponce. Date una scaldata con la macchina e via al caffè fino quasi al bordo. Tocco finale, una scorza di limone di giardino, nel qual caso avrete il ponce a vela.
E’ buono, innegabilmente buono, ma la forza del sapore è un po’ stancante. Hanno fatto bene i miei amici a consigliarmi di andare al Civili dopo aver cenato perché forse a stomaco vuoto la mistura sarebbe stata un po’ violenta. Comunque posso testimoniare che ho digerito e dormito benissimo senza dover lamentare disturbi di sorta. Provare per credere.
Un vivo ringraziamento a Deanna Muzio e Monica Rossi Nardi che mi hanno suggerito, ospitato, aiutato. Viva Livorno!
Articolo di Mario Mazzetti di Pietralata tratto dal libro mangiare&Essere
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