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Intervista a Don Alfonso

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Lo abbiamo conosciuto a Las Vegas nel gennaio del 1995 in occasione della sua partecipazione ad una manifestazione che la Sacis aveva organizzato per la promozione dell’audiovisivo italiano al Natpe, il più importante mercato televisivo del mondo. Lo ammiravamo per il singolare percorso che aveva compiuto: partito come erede di un piccolo albergo a Sant’Agata sui due Golfi, nel giro di pochi anni era diventato lo
chef più stellato d’Italia conquistando le tre stelle Michelin
.

Con la sua filosofia della semplicità, che lo porta a ripartire sempre dalla tradizione, sorprese ed entusiasmò i duecento manager dell’industria televisiva americana, invitati al nostro party Made in Italy, per i quali preparò un semplice piatto di spaghetti alle
vongole. Fu un grande successo di immagine: per la prima volta ero riuscito a mettere insieme sotto lo stesso tetto tutti i protagonisti dell’industria televisiva e cinematografica.

Da allora, Fabrizia ed i, quando vogliamo crearci un momento di felicità coniugando nostalgia e piacere, torniamo a Sant’Agata sui due Golfi e ci sediamo ad un tavolo del suo ristorante. Ad accoglierci c’è come sempre Livia, la compagna di una vita senza la quale sarebbe difficile persino immaginare Don Alfonso, sia l’uomo sia il ristorante. Alla fine il dessert è una dolce chiacchierata con loro seduti in giardino.

Don Alfonso
Don Alfonso

Alfonso: “Il gusto è qualcosa che matura con il tempo, è memoria storica, affonda le sue radici nella tradizione. La capacità di distinguere i sapori e di conoscere i profumi ha una
componente genetica. Stamattina il mio primo incontro è stato con l’apicoltore Nello che mi ha detto: “Guardate, vi do l’ultimo prodotto”, e mi ha consegnato nelle mani un telaietto con un miele molto ambrato, ho sentito la fragranza e mi sono emozionato, ho riconosciuto il profumo del mirto. Anche questo fa parte del mio lavoro, riconoscere i profumi, non perché sono bravo, è l’esperienza. Il mirto è l’ultima pianta a fiorire, con i suoi fiori bianchi bellissimi, e finora non è mai stato trovato nel miele. Credo che lo manderò in laboratorio ad analizzare. Inoltre mi ha detto che a Punta Campanella, nella nostra azienda agricola,
la mortalità delle api è zero mentre altrove ne muore il 50%. Per me le api sono creature fondamentali, quando vedi che le api vivono bene significa che nel luogo dove sei hai raggiunto il giusto equilibrio naturale. Non è facile, ci vogliono anni e devi capire, devi imparare ogni giorno, finché ti rendi conto, guardando un melo, che il suo frutto è maturo, senza bisogno di assaggiarlo; te lo dicono quelle sue sfumature di colore che tu sai riconoscere. Oppure riconosci quel particolare insetto che ti è utile perché sa combattere l’altro che è nocivo. E, ancora, c’è un momento della primavera alle Peracciole in cui ogni anno si spande un profumo speciale nell’aria. In quei giorni, guardando verso sud, all’orizzonte si vedono arrivare gli uccelli migratori. La natura è un’esperienza continua, la devi vivere.

Il gusto è come un’ala di farfalla, è eleganza, è insieme classe e qualità, il gusto è quello che tu trasmetti attraverso l’armonia che c’è in un piatto. Quella particolare combinazione di colori, profumi e sapori che creano un’emozione. È un’emozione che può nascere anche da cose semplici, per esempio il pomodoro. È vero che i pomodori si producono in tutto il mondo, però ci sono pomodori e pomodori, se hai la sensibilità per distinguere un pomodoro da un altro puoi creare un sapore e un profumo non ripetibili, che soltanto il gusto riconosce. Infatti il pomodoro ti racconta la cucina, la passione (è rosso), la fantasia (ha varie forme), e ti parla del campo dove è nato e del tempo che faceva, ma soprattutto non è mai banale! Ha un linguaggio asciutto e dialettico, dialoga con tutti, sa stare in compagnia, è prezioso crudo, cotto, essiccato, sott’olio o trasformato in marmellata. C’è il pomodoro che nasce in pieno sole, o quello che matura all’ombra di un albero di olivo. C’è il pomodoro cresciuto in una stagione torrida in campo aperto e quello maturato in un’estate
fresca. Ogni anno è diverso, ogni stagione è una storia che le piante ci raccontano. Se non le coltivi con amore puoi conoscere tutte le tecniche che vuoi ma sono inutili. Se non ci metti il cuore, il risultato non arriverà mai. Ecco perché ho definito il pomodoro un filosofo vegetale.

Quando abbiamo aperto il ristorante, il nostro piatto forte era banalissimo per i napoletani:
gli “Spaghetti alla Don Alfonso” erano con pomodoro fresco e basilico. Grande pasta, grande olio, grande pomodoro… ti fanno sognare. Abbiamo sfidato la quotidianità, ricominciando daccapo, cercando di riavvolgere il nastro per ritrovare i sapori di una
volta. Tradizione e innovazione. Un esempio, la “Parmigiana di melanzane”, che si basa sul connubio di due cotture, sul mettere insieme più elementi che hanno sapori e colori diversi. La parmigiana è un piatto fantastico che vent’anni fa ho stilizzato in una forma a cilindro. La melanzana leggermente fritta (ma non troppo), tagliata pure un po’ più spessa, mentre la parmigiana tradizionale, dal gusto più netto, la preferisce più sottile. Poi la mozzarella a rondelle con qualche foglia di basilico a julienne. Si forma così una specie di torretta che va cotta nel forno per una decina di minuti o anche un poco di più, finché si rassoda.

Ecco l’abbraccio tra tradizione e innovazione. Ma non bisogna dimenticare che un grande piatto nasce dalla qualità delle materie prime e da “ogni cosa a suo tempo”. La parmigiana non ti devi azzardare a farla d’inverno, va fatta a luglio, agosto, fino a metà settembre, perché altrimenti prevalgono i sentori di amaro, non ha gusto, non ha la giusta sapidità.

Sentirti parlare di melanzane è come ascoltare un brano di Mozart! La parmigiana non è una ricetta, è una evocazione. La parmigiana è un concerto, una sinfonia: la possono suonare tante orchestre e dirigere, nel tempo, diversi direttori. Ciò che conta è l’armonia. Alla base di tutto c’è lo spartito, la frittura. Se le fette di melanzane sono fritte male non ci sarà pomodoro o mozzarella o basilico o parmigiano che tengano, la parmigiana non suona, non verrà. Sarà un impasto, una torta, una mousse di verdura, ma mai una parmigiana! Detto questo, è possibile fare la parmigiana in tanti modi: tante esecuzioni, tutte meravigliose, perfino con il cioccolato. La tua è superba. A me sembra infinitamente seduttiva, perché originale e creativa, anche l’armonia che realizza Fabrizia, la parmigiana di melanzane con il ruoto di riso bianco. Fabrizia ha scritto una nuova pagina di questa famosa opera, lo spettatore guarda attonito mentre il sapore immaginato sale fino alle labbra e la passione gli fa pregustare il gusto che verrà.

Alfonso: Sperimentare in cucina ti porta a provare metodi che vanno contro tutte le regole. Una mozzarella è tale se è turgida come la bocca di una giovane donna innamorata. Bene, proviamo a renderla un soffio, una nuvola lieve come una carezza. Così è nato il “Soffiato di mozzarella”, siamo stati un intero inverno a provarlo. Oppure la “Cernia al profumo di vaniglia e pepe nero con aceto invecchiato e salsa di ciliegie”. In cucina non ci sono regole ma rispetto, le regole le facciamo noi, chiunque si metta dietro i fornelli, poco importa se abbia o meno il titolo di chef. Tutto è permesso. Penso al “Coniglio di campo con ravioli di prugna e sentori di lavanda” o al “Filetto di lepre con melanzane e frutta candita”. E ancora la combinazione di tonno e pistacchio, una singolare armonia di sapori che prima non si poteva ottenere perché in cucina non c’era la tecnologia di cui oggi disponiamo. Per questo piatto sono necessari tre tipi di cottura, l’uso dei termometri per far venire quel tonno rosa o per tostare i pistacchi. Prima avresti potuto al massimo fare un tonno marinato con una maionese di pistacchio, oggi riesci a garantire nello stesso momento cotture diverse a diverse temperature.

Mangiare sano equivale a mangiare bene, cioè a non sacrificare il gusto. Un cibo sano ma senza sapore è un alimento malato perché privo della componente del piacere, e riduce la tavola da un momento conviviale alla soddisfazione di un bisogno solo fisiologico. Da noi la salute è già a tavola. E salute vuol dire qualità, una qualità alla portata di tutti, realizzata con prodotti di uso comune, come il nostro olio extravergine estratto dalle olive. Sulla Penisola Sorrentina l’olivo attecchisce da sempre, nasce persino spontaneo tra le rocce e il mare. È da questa pianta selvatica, chiamata olivastra, che veniva coltivata dai vecchi contadini, che siamo partiti per fare il nostro olio. Ho interrogato la tradizione, ho parlato con tutti, ho girato l’Italia, ho sperimentato per anni. Si fa così, non si fa così? Poi andavo al test, delusioni grandissime. Ho cominciato con la cultivar autoctona, la Minucciola, nata da una varietà selvatica, per cui ha mille problemi: se la raccogli troppo presto è amarissima, se ritardi di un giorno diventa matura e perde tutti i profumi, in definitiva un frutto incontrollabile. Ci ho provato per dieci anni e alla fine ho dovuto rinunciare. Allora ho
provato con la Moraiola, e poi la Leccino e qualche altra varietà locale come la Rotondella.

Andare per frantoi è stata la scuola migliore. Un giorno sono capitato nel Chianti, ho sentito profumi incredibili e assaggiato oli di grande equilibrio che nella nostra penisola non esistevano. Allora ho iniziato a fare come facevano in Toscana, ho piantato le loro cultivar Frantoio e mi sembrava di aver trovato il giusto compromesso, ma purtroppo il clima diverso mi ha creato gravi problemi, troppo difficili da risolvere a priori. Ho capito che l’unica strada era quella di sperimentare e non fermarsi mai. Durante un viaggio in Sicilia, mi sono innamorato della Nocellara.

Cos’è la Nocellara per me? Innanzitutto è una questione geografica, le piante del Sud si difendono meglio dal sole e dalla siccità. Quando mi hanno organizzato un primo incontro con gli agricoltori siciliani e ho potuto assaggiare gli oli che producevano con questa cultivar, ho sentito l’eleganza tipica del vero olio toscano, con in più il tocco mediterraneo di profumo e di sapore, quello straordinario equilibrio di erba e di pomodoro, che non dimentichi più. Allora ho cominciato tutto daccapo, la gente mi dava del pazzo perché spiantavo i vecchi olivi e mettevo i nuovi. Quando ho fatto il nuovo olio, ho dimostrato
con la qualità che avevo ragione. L’olio è un elemento di purezza nella nostra cucina e ha una sua liturgia, quasi religiosa.

Il mondo dell’olio è un mondo misterioso, nemmeno la scienza è riuscita a spiegarci i tanti, innumerevoli fenomeni che caratterizzano la vita della pianta e l’estrazione dalle olive. La qualità, il gusto, il profumo che cerchiamo in un vero, autentico olio di Taggiasca della Liguria, piuttosto che in una spremitura di olive Coratina della provincia di Bari, deriva
infatti dalla pianta, dal terreno, dall’ambiente, e poi dalla sapiente arte del mastro oleario che sa estrarre dalle drupe un extravergine tipico e di qualità. Certamente la Nocellara è una cultivar straordinaria, ma quella di don Alfonso ha in più il gusto e il fascino della Penisola Sorrentina e di Punta Campanella.

Alfonso: Una volta l’olio serviva per sopravvivere: accendeva le luci delle città, si usava come combustibile, si usava come moneta di scambio, era il baratto con il medico, con il notaio. Negli ultimi vent’anni c’è stato il salto di qualità, si è finalmente giunti a fare un grande prodotto. Ora è necessario educare i cittadini al gusto e al piacere dell’olio dalle olive, nel rispetto di abitudini che possono accompagnarli nella vita e tenerli lontani da problemi di salute, anche perché l’olio è un grande antiossidante.

Don Alfonso Famiglia
Don Alfonso con la sua famiglia

Mi ricordo di come si faceva l’olio nella Penisola Sorrentina, di come lo faceva mio nonno materno, calzolaio, che in inverno per mandare avanti la famiglia metteva in funzione il frantoio nel magazzino della sua bella casa, in località La Pigna, a mezzo chilometro da Sant’Agata sui due Golfi, andando verso il mare dalla parte di Salerno. Da bambino la mia mamma mi portava a trovare il nonno mentre faceva l’olio: in un grande ambiente, c’era una vasca di pietra con pali di castagno al centro e due ruote che giravano con un asse centrale e due asinelli bendati.

Sento ancora quell’odore acre, forte, che si avvertiva già duecento metri prima, una puzza proveniente da olive quasi marce che scolavano l’acqua fino al rigagnolo più vicino. Una volta macinate le olive e spremuta la pasta, uscivano acqua e olio che venivano separati con frustine di mirto. Poi sono arrivate le presse con i fiscoli di canapa, vi si versava la pasta di olive che, a contatto con l’ossigeno dell’aria, diventava di un colore tra il giallo e il marrone. Quindi sono arrivate le prime tecnologie, i primi separatori, e infine gli impianti chiusi della Pieralisi. Per mantenere le caratteristiche di un olio di qualità, oggi si usa spesso, nelle gramole e nello stoccaggio, l’azoto. Comunque la regola prima rimane sempre la stessa: se raccogli le olive al momento giusto, in modo corretto, e le porti subito in frantoio, e se il mastro oleario sa fare bene il suo mestiere, avrai certamente un olio in cui si esaltano i sapori, i profumi, e amaro e piccante avranno il giusto equilibrio. Insomma, avrai un olio eccellente.

Fabrizia: Assaggiare l’olio in frantoio quando esce dal separatore è un’esperienza di vita. Il suo profumo inebriante si spande nell’aria, il suo colore verde pieno di pagliuzze d’oro sorprende. Qualcuno fa resistenza all’assaggio con il bicchierino ma poi, se sono brava a convincere, cede e spalanca gli occhi di meraviglia. Qualcuno, quando prende coraggio, lo assaggia come si faceva una volta: con il dito. Oggi lo fanno in molti anche se l’olio è bene assaggiarlo sul pane. Perché è un liquido, ma non è una bevanda. È un alimento, è un cibo. Diceva Pietro Ferrero, l’inventore della Nutella, che vi sono due tipi di prodotti alimentari: quelli che vanno in bocca e quelli che vanno nella pentola. Ebbene, l’olio è entrambi: in bocca, magari su una fetta di buon pane, libera i suoi profumi e i suoi sapori, mentre in
pentola, magari per un buon sugo di pomodoro o una sfiziosa frittura “all’italiana”, è capace di dare maggior gusto alla pietanza.

È stato definito un condimento e certamente lo è, come lo sono il pomodoro o il formaggio grana. Per conoscerlo, e individuarne proprietà e virtù, è necessario andarlo a trovare, e il luogo più idoneo è sicuramente il frantoio.

Alfonso: Ma uno dei grandi problemi con cui oggi ci dobbiamo misurare è la mistificazione che è stata fatta sull’olio d’oliva in cucina. È stato detto che per fare una buona cottura ci vuole l’olio di semi, il burro, qualcuno consiglia persino la margarina. Mentre noi sappiamo che il cibo può avere sapori e profumi di maggior gusto se in cucina si usa un buon extravergine. Purtroppo i grassi alimentari sono in mano a tre, quattro gruppi multinazionali ed è uno dei più grossi business del secolo, per cui l’olio extravergine di oliva ha nemici inimmaginabili.

Come se non bastasse, il mercato ha disorientato i consumatori: è normale spendere dieci euro per una bottiglia di vino che beviamo a tavola in una serata, ma se devo spendere gli stessi dieci euro per una bottiglia di olio che sulla tavola può durare anche un mese, è uno scandalo. Ovviamente lo stesso discorso vale in cucina, l’olio extravergine di oliva è eccezionale per la frittura ma bisogna saperlo usare. Il sistema che usiamo per friggere è
uno dei più antichi ma anche dei più salutari perché preserva le vitamine. Friggere il pesce dopo averlo passato nella farina significa impermeabilizzarlo: le sue proprietà salutistiche, i sali minerali e le proteine, rimangono all’interno, per non parlare del sapore!

Per noi al Don Alfonso l’innovazione in cucina è fondamentale, ma soltanto se non tradisce la nostra identità. Per questo abbiamo ricercato sempre uno stretto legame con il territorio, con le stagioni e i suoi prodotti, con un occhio rivolto alla storia, alle tradizioni, e una grande attenzione agli artigiani che sanno trasformare i frutti della terra in straordinari prodotti gastronomici.

Il nostro menu si apre con una frase di Eduardo De Filippo: “Solo dopo aver studiato, approfondito e rispettato la tradizione, si ha il diritto di metterla da parte, sempre però con la consapevolezza che le siamo debitori, per lo meno, d’aver contribuito a chiarirci le idee. Naturalmente, se si resta ancorati al passato, la vita che continua diventa vita che si ferma ma, se ci serviamo della tradizione come di un trampolino, è ovvio che salteremo assai più in alto.”

La tecnologia al servizio della terra, e non viceversa. I miei piatti nascono dal desiderio di rispettare la mia terra, di non dimenticare la sua storia e le sue tradizioni e valorizzare i suoi prodotti e i suoi artigiani. Questo nostro meraviglioso Paese è stato distrutto perché sono state abbandonate tutte le tradizioni, quale può essere il futuro se non torniamo a essere quello che siamo sempre stati? La storia del cibo l’abbiamo fatta noi. Potevamo vivere di rendita con l’arte, la cultura e il turismo, l’agricoltura. Penso che l’unica possibilità che abbiamo sia quella di riappropriarci del nostro passato, di riprendere un discorso che abbiamo interrotto quando a Bruxelles l’Italia ha scelto di difendere la propria industria dell’auto lasciando alla Francia e ai Paesi Bassi l’agricoltura.

Dobbiamo avere il coraggio di fare un discorso di recupero: lì andrà il futuro. Così come sono convinto che, oggi più che mai, nel nostro lavoro come in quello di tanti altri sia importante l’etica, il rispetto degli altri. Alla presentazione del mio libro qualcuno, incuriosito dal titolo, mi ha chiesto: “Che cos’è ‘la cucina col cuore’?” La cucina
è amore per se stessi e attenzione amorosa per gli altri.


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