Avete presente il campanello della ricreazione, il panino preparato a casa la sera prima perché la mattina era tutta una corsa, il panino quasi sempre all’olio pensando che fosse migliore, ma che se non lo incartavi bene finiva che buttavi il panino e mangiavi solo il salame o il prosciutto che lo riempiva, il panino che quasi sempre arrivava all’ora di ricreazione già mezzo mangiato di nascosto sotto il banco e alle spalle del professore, e avete presente il terrore che si spargeva quando capivi che al vicino di banco il panino lo avevano preparato con il formaggino che sì, lo faceva rimanere morbido, ma che nel chiuso di classi sovrappopolate spandeva un odore da spogliatoio?
Ecco, se avete presente tutto questo, allora della scuola felice siete stati attori e testimoni e ricorderete bene come di quella scuola, insieme allo studio, anche la liturgia del mangiare fosse una scansione fondamentale del tempo.
Anzitutto tracciamo una linea di confine.
La scuola felice iniziava il primo di ottobre, giorno di San Remigio al calendario cattolico, tanto che i bambini che per la prima volta vestivano fiocco e grembiule erano chiamati remigini.
Iniziare la scuola il primo ottobre significava ovviamente prolungare il tempo di estati che sembravano infinite, un tempo dilatato in vacanze, gioco, divertimento e persino in sano ozio, che non è il padre dei vizi ma della creatività, punteggiato dai libri dei compiti estivi e, per chi era rimandato, dalle ore di studio per sostenere gli esami di riparazione a settembre.
Poi arrivò il 1977, l’anno che insieme all’antagonismo studentesco vide cambiare per legge, la 517 del 4 agosto, anche i tempi di inizio e di fine dell’anno scolastico.
Di fatto, una perdita dell’innocenza, con l’omologazione dei tempi dell’universo scolastico con quelli di ragioni meramente burocratiche che a tutto portarono tranne che a una maggiore efficienza del sistema dell’istruzione.
Ebbene, questa scuola felice la possiamo raccontare scegliendo il linguaggio non convenzionale del mangiare, dei suoi riti, dei suoi luoghi e della sua estetica, perché la giornata scolastica non iniziava e non finiva varcando il portone della scuola, ma iniziava e finiva a tavola.
Il panino da portare per la merenda si preparava spesso la sera prima e si conservava in frigorifero, ma era con la colazione che la scuola entrava in casa; colazioni robuste, tazzone di latte allungato con caffè o con orzo, biscotti, pane con burro e marmellata, a volte ciambelloni fatti in casa e uova sbattute con lo zucchero che diventavano zabaione con energia a rilascio immediato.
Ecco, il punto era proprio questo: l’energia, che quando non era ancora demonizzato passava per una varia somministrazione di zucchero, diventa l’elemento trainante e centrale di tutta la comunicazione pubblicitaria di prodotti pensati o indirizzati ai bambini, da sempre grandi influencer dei consumi domestici.
Studiare è un impegno, richiede concentrazione ed energia e allora, se per caso vostro figlio che si vede che è studioso e al quale non manca certo l’intelligenza non va bene a scuola è perché lo studio l’ha esaurito e bisogna rimetterlo in forze. La soluzione ai brutti voti è semplice e a portata di mano; si chiama Ovomaltina perché, come ci informa la pubblicità del 1957, una tazza di Ovomaltina ogni giorno gli restituirà in breve tempo l’energia necessaria a studiare senza fatica e con migliore profitto.
La colazione va bene, ma a scuola c’è un momento indimenticabile e irrinunciabile: la ricreazione, parentesi aperta nella costrizione dello stare al banco, del seguire le lezioni del maestro o del professore, del rispondere a un’interrogazione o del fare compiti in classe – adesso si chiamano inspiegabilmente verifiche, come se la parola compito fosse lessico impresentabile del politicamente scorretto – che scorrevano tra memoria, fogliettini microscopici, appunti scritti a matita leggera sulle pagine dei dizionari e frasi bisbigliate con labbra serrate e improvvisate abilità ventriloque.
Il panino portato da casa era la soluzione classica per spezzare la fame di metà mattina, ma non era l’unica e prima ancora che fiorisse il mercato delle merendine pronte, i Biscottini di Novara, i Pavesini, la fanno da padroni e la pubblicità del 1956 ci restituisce l’immagine di due bambini che si tengono per mano, fratelli evidentemente, maschio il primogenito e femmina la seconda arrivata, in un’immagine che dipinge la famiglia italiana del tempo e le sue aspettative; tipicamente con due figli, con una prospettiva di miglioramento sociale affidata allo studio, e che, iconograficamente, vede ancora in posizione preminente il figlio maschio, il primo, il più atteso, al quale affidare la trasmissione del cognome di famiglia, ovviamente paterno.
Il fatto è che a metà mattino uno spuntino con Pavesini darà nuova energia ai vostri bimbi. Anche l’illustre pediatra prof. Ivo Nesso consiglia i Pavesini nell’alimentazione infantile perché molto nutrienti, ricchi di calorie, di facile digestione, e quindi date ogni mattina ai vostri bimbi un pacchetto di Pavesini, l’alimento principe che aiuta a sopportare le fatiche della scuola.
La pubblicità dei Pavesini ci introduce anche a un’icona assoluta dell’infanzia scolastica, il cestino, oggetto del desiderio sia che fosse di plastica o di vimini intrecciato in stile pic-nic, custode di ogni immancabile segreto, fogliettini, matite a pastello spuntate, pennarelli senza tappuccio, bicchierini di plastica telescopici, protagonista confidente delle giornate di scuola insieme alla cartella rossa con fibbie e tasconi davanti, che faceva bello sfoggio di sé sulle spalle in crescita di grembiuli neri, blu o bianchi.
Ma è durante le lezioni che si creano complicità il cui ricordo durerà una vita, anche quando quelle amicizie che sembravano eterne rimangono vive solo in angoli di memoria sopita, e allora quella complicità può avere la forma rotonda di un buco con la caramella intorno, la Life Savers, la caramella americana importata e distribuita dalla Motta di cui ci parla la pubblicità del 1952, dove i cuoricini incisi sul banco di legno ci informano che a Giorgio piace Maria, a Luigia piace Giovanni, a tutti piace il Life Savers.
L’estetica è di derivazione nordamericana, il taglio e il colore dei capelli, l’incarnato, i blue jeans del bambino e il vestitino a quadroni di lei – motivo che qualche decennio dopo diventerà iconico delle camicie Ralph Lauren -, ma il gesto, il passare la caramella di nascosto, appartiene a un linguaggio universale delle mani inequivocabile, non solo senza confine, ma anche senza tempo.
E vale la pena osservare il banco: di legno, con la ribaltina, con la scanalatura per riporre penne e pennini e con il buco per il calamaio.
È un banco monoposto, ma è il banco di una scuola felice e non di una scuola distanziata, banco monoposto ordinato in file perché l’insegnamento è inevitabilmente gerarchico visto che lì dentro, in classe, qualcuno insegna e qualcuno deve apprendere, banco monoposto provvidenzialmente privo di rotelle, rotelle oggi ritenute utili per potersi disporre in circolo durante l’insegnamento, come con malriposta audacia ha dichiarato in una recente intervista televisiva una temporanea rappresentante del Parlamento italiano.
Le caramelle, in effetti, non soltanto con le Life Savers ma anche con le nutrientissime sane Ambrosoli diventano il sostegno alle prime fatiche.
La pubblicità è del 1956, siamo già nel pomeriggio e l’icona familiare è molto simile a quella dei Pavesini: due fratelli alle prese con lo studio, maschio primogenito alle prese con il latino, femmina secondogenita alle prese con l’alfabeto e con una mise da domestica di famiglia di buona borghesia. Singolare notare come per un qualche strano percorso dell’identità visiva, lo sfondo nero, il tavolo verde e la luce gialla e bassa che incombe sulla testa dei bambini, richiamino da vicino l’immaginario e l’atmosfera di un tavolo da gioco, più o meno clandestino.
L’energia per gli scolari deve però essere assicurata tutto il giorno e in maniera sostanziosa, perché il profitto a scuola dipende dalla buona salute e la buona salute si difende con la Pastina Glutinata Buitoni, come ci dice la pubblicità del 1960 e perché i ragazzi, come racconta invece la pubblicità del 1963, avranno più vitalità con Pastina Glutinata Buitoni che ha il 25% in più di proteine e che in un piatto contiene l’energia di un giorno ed è ricca di acido glutammico (attivatore dell’intelligenza), di vitamine del gruppo B, del gruppo E e dei sali minerali indispensabili all’organismo, ferro, fosforo, calcio. Con ogni evidenza, intolleranze e allergie al glutine al tempo non dovevano essere conosciute, riconosciute o considerate.
Panino o non panino, il tempo delle merendine pronte incalza e nel 1965 la pubblicità della Motta è ultimativa: la merenda dello scolaro è il Ciocorì, con riso, latte, cacao, zucchero, alimento equilibrato, di alto potere nutritivo e di facile digeribilità. Un prodotto che effettivamente negli anni a venire, insieme al Buondì, alla Fiesta e al carrarmato di cioccolato Perugina alimenterà, e non solo nell’immaginario, generazioni di scolari e studenti.
In ultimo, rimane un mistero.
Un mistero legato a un luogo della scuola, una sorta di claustrum, un luogo chiuso, inarrivabile ai più, al quale ci si avvicinava in file ordinate, spesso rispettando una quasi eucaristica regola del silenzio, spesso accoppiati, i più piccoli tenendosi per mano e non si è mai saputo se quel tenersi per mano servisse a mantenere la disposizione della fila o a infondersi coraggio l’uno con l’altro, consapevoli del destino comune che attendeva finiti i corridoi e oltrepassata la porta.
Il luogo in questione era il refettorio, dove chi aveva la ventura di frequentare il doposcuola, consumava pasta scadenzati e sempre uguali.
Ma il mistero non è il luogo.
Il mistero è l’odore del refettorio.
Un odore sempre uguale qualunque fosse il pasto del giorno, l’odore che annunciava a tutti l’incedere dell’ora di pranzo e l’avvicinarsi al luogo deputato, stanzoni quasi sempre con tavolate livellanti che ospitavano paste al sugo, paste al burro e sugo, paste in bianco con la margarina, minestrine che Dio non voglia, esangui arrostini di vitellino, insalatine appassite e, quasi immancabili, le arance da mono stagione.
Di tutto questo, l’odore è stato sempre uno e unico, in qualunque refettorio, in qualunque scuola, in qualunque anno scolastico.
La scuola felice forse non c’è più, ma il mistero dell’odore del refettorio rimane, mai sciolto da nessuno, probabilmente anche non invidiato da nessuno, ma altrettanto probabilmente ricordato da tutti.
L’inizio di questo nuovo anno scolastico si preannuncia con criticità impensabili fino a qualche mese fa e, al di là dei dovuti aspetti di salute pubblica, il tema dei banchi che sembrano sedute da sala convegni ha fatto discutere molto.
La scuola felice è fatta di tante cose.
Una di queste, imprescindibile, è la socialità che si crea in classe con la condivisione dei momenti, e anche con le complicità del sotterfugio di piccolo taglio consumato alle spalle del professore al riparo offerto dai banchi di scuola.
I banchi trasparenti, che non offrono riparo, non faranno una scuola felice, faranno una scuola distante e distanziata di cui, nel tempo, nessuno sentirà la mancanza e questo non solo è un peccato, ma è un danno, un danno generazionale di cui, con ogni probabilità, non risponderà nessuno.
E in tutto questo, se mai qualcuno avesse idea sul mistero dell’odore del refettorio, ci faccia sapere, ma con prudenza e un po’ di tatto, perché anche quel mistero fa parte della scuola felice.
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