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La spesa e la grande mammella della G.D.O. (parte prima)

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La spesa e la grande mammella della G.D.O. (parte prima)

Fare la spesa. E’ uno dei momenti più belli della giornata, quando dedichiamo il tempo a noi stessi e all’approvvigionamento alimentare; io lo faccio con grande piacere e riempio il carrello di emozioni che cucinerò con la dovuta passione, a soddisfare il mio palato e quello dei commensali. Oggi abbiamo di che scegliere, possiamo fare la spesa in posti diversi, benché diverse indagini di settore ci dicono che le donne italiane prediligono sempre più i grandi spazi di super-ipermercati, molto più seducenti del negozietto di quartiere. Immagino anche che le vostre frequentazioni di questi luoghi, occasionali o assidue che siano, non avranno per tutti lo stesso felice impatto e del resto non può essere diversamente, poiché ognuno ha un proprio rapporto con il cibo l’alimentazione e il portafoglio. Diversità. E’ quella che amo intercettare quando mi tuffo nell’esercizio esplorativo dei super-ipermercati ed occhieggio i volti dei clienti che li affollano. Affascinante. Volti espressivi di figure antropomorfe, tra le quali s’individuano facilmente quelle più nevrotizzate dalla mancanza di tempo e dai mille impegni del quotidiano, spesso insofferenti alle file che si formano ai banchi della gastronomia, del pane del pesce ed immancabilmente alle casse.

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La spesa come atto consapevole: ipermercato o piccolo negozio sotto casa, è una scelta dalle conseguenze non irrilevanti.

Più preoccupante, però, è la malcelata insofferenza di alcuni soggetti alla presenza degli altri, spunto assai intrigante per gli appassionati della scienza prossemica e della comunicazione non verbale. Tant’è. Devo anche ammettere di aver sempre pensato, sbagliando evidentemente, che la G.D.O. fosse l’acronimo di Gentile Deprivazione Omologante e invece ho saputo che sta ad indicare Grande Distribuzione Organizzata: sarà, ma continuo a preferire il primo esplicativo dei due. Quando approdo in questi rutilanti habitat sono colpito dall’ambiente vividamente garrulo, pensato da menti sopraffine come un’oasi di adescamento commerciale, ove la clientela “sovrana”(?) -che nell’80% dei casi è femminile- in totale balia delle collaudatissime strategie d’acquisto, deve essere bonariamente optostimolata e seguentemente indotta all’inzeppamento del carrello.

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La spesa all’ipermercato: layout, colori e immagini come veicolo per stimolare la spesa. Credit: Salerno Today

In questi contesti, infatti, non è da sottovalutare l’architettura psicologica che cura la scenografia e i servizi dell’ambiente ed innalza i livelli di gradimento durante la buona spesa. Dal parcheggio senza problemi delle autovetture, a quello più ludico ove sgravarsi dei bambini insofferenti agli scaffali; dall’atmosfera termoregolata, alla musica di sottofondo alternata da messaggi promozionali; dai carrelli a forma di macchinina per i bimbi più recalcitranti a quelli per il fido cane; fino alle gentili donne che offrono assaggi di caffè o cibi “promozionati”, per indurre la clientela ad ulteriori accaparramenti.

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Il carrello automobile dove “depositare” bimbi recalcitranti

La spesa e la grande mammella della G.D.O. (parte prima)

A tal proposito e in piena vis polemica, mi sento di alzare una forte critica nei riguardi di chi progetta l’illuminazione di questi spazi espositivi, le cui scelte perseverano su luci a tonalità “fredda”, che ammantano l’ambiente di uno sgradevole effetto obitorio, piuttosto che scegliere luci a tonalità “calda”, molto più indicate per atmosfere che si vogliano confortevoli. Diamine. Nel nostro super-ipermercato, poi, non possono mancare i tattici ausili della tecnologia, che consentono l’acquisto senza fare fila (casse veloci) e dispongono di ogni forma di pagamento possibile; contanti, bancomat, carte di credito, buoni pasto, buoni sconto, pagamenti con smartphone e via dicendo.

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La luce fredda caratterizza i locali che ospita iper e supermercati.

“Questa è modernità” direbbe l’impagabile Crozza nella pantomima imitativa dello scienziato Zichichi. E, quivi, la percezione che il capitalismo consumistico indossi gli abiti della modernità c’è, eccome. Pur tuttavia il consumatore tacchino non diventerà mai socialmente sensibile e difficilmente lo vedremo afflitto, per esempio, dagli smisurati consumi di queste mega attività energifaghe. O dai prezzi elemosina con cui la G.D.O. paga i prodotti della terra ai coltivatori diretti. O dalle condizioni lavorative e retributive dei suoi dipendenti. O dalla cifra che stigmatizza lo spreco di generi alimentari invenduti (leggi cibo) attribuibile alla G.D.O., in Italia ancora ostaggio di un quadro normativo controverso e farraginoso, in attesa della definitiva approvazione della legge Gadda.

lo spreco alimentare
Si calcola che siano 1,3 i miliardi di tonnellate di cibo destinati al macero ogni anno nel mondo. Credit: Repubblica.it

L’immaginifico mondo del consumatore tacchino è, invece, assortito da espressioni surrettizie come “il tuo”, “sei tu”, “vieni anche tu”, “prezzi corti”, nient’altro che slogan giulebbati atti ad inoculare i giusti livelli di serotonina nella sensibile clientela. Questo è il Paese della Cuccagna del Bengodi e di Calandrino, è una mammella che accoglie e sfama tutti, trasversalmente e democraticamente, senza distinzioni di razza di religione e di genere. Persone brave e malvagie, donne, uomini, gay, lesbiche, trans gender ed individui a sessualità slittata, juventini e romanisti, disabili, democristiani ed estremisti, comunisti ed ex comunisti, fascisti e diversamente fascisti, pentastellati, anarchici ed agnostici ma, soprattutto, gli imperituri moderati. Una particolare etnia antropologica che ignora di essere cruda testimonianza dell’esattezza della scienza fisiognomica: e dietro le facce che fingono maturità e saggezza politica, alimenta il suo putrido cabotaggio politico che vieppiù sta necrotizzando la residua spina dorsale pensante del Belpaese.

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Raffigurazione del Paese di Bengodi, descritto nel Decamerone di Boccaccio, III novella, VIII giornata.

Ebbene, io penso presuntuosamente che l’homo moderato italiota abbia comunque una grande chance di rinnovamento, ne sono certo. E per coglierla dovrebbe autoconvincersi a trasferire i suoi ammalorati atteggiamenti di moderatezza nell’atto del desinare, quando cioè allunga i piedi sotto al tavolo e, senza privarsi tout court di sporadici e sani eccessi enogastronomici, misurarsi. Ricercando però in sé altre forme di civile espressione, quali condivisione, sfrenatezza, coerenza, altruismo, determinazione ma anche intemperanza da poter trasporre, per esempio, nell’alveo dell’attuale polis nostrana. Sarebbe una vera rivoluzione sociale, fortemente auspicata anche dall’indimenticato Mario Monicelli pochi anni prima della sua impavida “uscita di scena”. Lui no, non tollerava certo l’italica moderazione e il qualunquismo, non avrebbe mai tollerato il ricatto verso i coltivatori diretti, strozzati dal potere della Distribuzione e benché mai avrebbe tollerato le condizioni lavorative e retributive dei dipendenti della G.D.O.; testimoniate peraltro da varie vertenze aperte verso Unicoop, Auchan, Esselunga e via dicendo.

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Mario Monicelli

Queste oligarchie del comparto alimentare sono talmente ramificate sui territori con i loro iper, che oramai da anni cannibalizzano i piccoli esercenti alimentari, costretti a chiudere. E la loro clientela di quartiere, fatta di anziani e popolane, perde un punto di riferimento nel quotidiano. Poco male. Alzasse le chiappe e raggiungesse l’ipermercato più vicino, magari marciando su una qualsiasi autovettura, che così facendo innalza anche le percentuali di PIL. E gli anziani? Ma non si può soddisfare tutti tutti, porca di quella troia, anche perché loro mangiano poco, consumano poco. Non sono buoni consumatori alimentari. Vabbè, vorrà dire che offriremo ai pensionati una giornata al mese di grandi sconti, magari alla 3° settimana. Però a quel punto devono venire tutti in massa, senza più scuse. Maledetta longevità italica.

Cibaria


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