La pappa e la storiaLa storia del cuscusu

La storia del cuscusu

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E’ chiaro che la trattazione sull’argomento cuscusu non è impresa facile, specialmente in provincia di Trapani che è stata spodestata della sua centralità nella storia di questo cibo che è alimento principe non solo del nord Africa o meglio delle zone subsahariane e poi di tutto il mediterraneo, di tutte le sue sponde e dei suoi popoli.

Certamente città come Mazara, Marsala e Trapani occupano un posto preminente nella divulgazione di questo alimento, sia per motivi storici antichi sia per i rapporti più recenti, dal secolo XVI in poi.

L’invasione della Sicilia da parte degli arabi del Maghreb nell’830 d.C. ed il loro sbarco a Mazara e quindi la conquista prima di questa parte della zona occidentale dell’isola potrebbe avere sicuramente influenzato il gusto dell’alimentazione e quindi aver favorito l’introduzione del couscous in seno alla popolazione che era prettamente cristiano-bizantina.

Ma la tesi non è suffragata da una documentazione di autori tramandata e neanche di ricerche e scavi di natura archeologica.

Nel basso medioevo e fino agli inizi dell’età moderna Trapani è punto d’incontro e di arrivo di tante avventure, dalla pirateria barberesca e cristiana, al passaggio di crociati fino alla venuta degli aragonesi con re Pietro che sbarca nella nostra città nel 1282. Il punto nodale è costituito dall’avvento della schiavitù domestica, con la collocazione all’interno delle nobili famiglie di uomini e donne soprattutto provenienti dalla Barberia.

Una ricerca storica approfondita non è stata mai attuata, anche perché in questo campo occorrerebbe impegnare intere equipes di studiosi. Tuttavia oggi le cose sono mutate e diversi studiosi e ricercatori si sono impegnati per sfatare leggende e storie fantastiche.

Il fondo di verità tramandatoci dalla letteratura con le novelle del Boccaccio e del Novellino viene confermato dalla documentazione notarile, conservata nell’archivio di stato di Trapani e più volte consultata dagli studiosi stranieri come l’israelita Ashtor ed il francese Henri Bresc.

Presso il notaio Giovan Antonio Fardella del sec. XVI, in un inventario successivo al testamento della nobildonna defunta donna Giovanna de Graffeo in data 21 marzo del 1550, vengono citate due schiave nominate, una Anna ed una, Fatima.

Tra gli altri oggetti citati, sia di biancheria come di rami e argenti, viene citata <<una pignata di ramu di cuscusu>>. E’ la prima citazione nella storia delle ricerche sull’origine del cuscusu a Trapani. Sembrerebbe strana la citazione di una stoviglia costruita con foglia di rame, probabilmente all’interno lavorata a stagno. Ma se consideriamo che le stoviglie di rame appartenevamo di solito alla classe nobile e che le stoviglie di cotto erano appannaggio del popolino,la citazione non sembrerà stramba.

Per riandare ad una analisi semiologica del termine, possiamo dire che nella sua descrizione tecnico-pratica, il Cuscusu appare nei dizionari settecenteschi siciliani, quali il Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino dell’abbate Michele Pasqualino da Palermo, stampato nel 1785 dalla reale stamperia.

Scrive il Pasqualino che il <cuscusu> è una sorta di pasta per lo più fatta di semola ridotta in forma di picciolissimi granelli, che cotta si mangia in minestra, semolino.

P.M.S in cuscusu. Dice “Simola subacta in minutos globulos per cribrum redacta Graece  kÒskinon coskìnon est cribrum a quo videtur formatum &c. Vinci cuscusu Similago , seu globuli e simila vox Arabica Jo. Leoni in descriptio Africae p.2 f.12 de populis regionis , haec ita scribit : sogliono mangiare, carne bollita, ed insieme cipolle, e fave, o pure l’accompagnano con un altro cibo detto da essi cuscusu. Poi il Pasqualino conclude citando il <Cuscusu asciuttu, sorte di dolce fatto di semola ridotta a pallottoline condita di zucchero e cotta con fumigio; si potrebbe dire semolino dolce>. >L’ultima citazione si riferisce al cuscusu dolce, oggi di nuovo in uso nella ristorazione.

La descrizione è imprecisa ed imperfetta, tuttavia risponde per la maggior parte ai canoni conosciuti.

Nell’opera del Ragona,<La maiolica siciliana>, edita dal Sellerio, viene citato un inventario di beni del fu Don Giovanni de Jnnava Remanzon del 3 luglio 1576, ricavato dagli atti della Curia delle cause Civili di Siracusa, elenca <vetragli di Nicossia>, come pure <un bacile> e < tri piatti grandi di Nicossia di maccarruni ditti marfarati>. La citazione era dovuta ad un riferimento di una produzione di maioliche della città di Nicosia, produzione che sostiene Ragona non andò oltre il secolo XVI.

La citazione era tratta da documenti dell’Archivio del Duomo di Piazza Armerina (vol.4 feudo Camitrici, f.123).

Quello che colpisce nella citazione del Ragona è la parola <marfarata> che viene citata poi di recente nel dizionario del Piccitto (1950-). La prima parola citata nel dizionario è <mafararda> (usata nel trapanese) che rimanda a <mafarata>.

La parola <mafarata> (citata dal Malaspina ed altri) si configura in un vaso di creta o di legno, concavo, un catino, ma anche in un sorta di piatto, scodella, spesso di creta. A sua volta il Piccitto rimanda alla parola <mafaradda> (usata nel trapanese), a mafararda, a maffarada, a maffarrata, a marfarada, a mmaffarata. Ed infine dice cfr. con ammafaredda, marfarata.

Il dizionario riporta la parola <marfarata>, usata nell’ennese.

Infine, riandando quantità, ad es. di ciboai vocabolari storici, come il Pasqualino del secolo XVIII, si cita la parola <mafarata>, sorta di vaso fatto di creta concavo, rotondo, a somiglianza di concola, ma più piccolo, vasello, vasetto, vasculum, crater e dice che è ignota l’etimologia.

Quindi si può ben dire che questo strumento della civiltà materiale, della vita quotidiana, si rifà ad un termine linguistico antichissimo, ma di cui si sconosce l’origine.

Nel saggio dell’Adragna su “L’ambiente di Erice dai Romani agli Arabi (III-IX secolo d.C.) l’autore si rifà all’Amari che così recita testualmente: <<per 243 anni che tanti ne corsero dalla conquista dei saraceni a quella dei normanni, io non trovo negli annali di Sicilia registrato verun fatto memorabile che ci attesti lo stato di Erice sotto i Saraceni. Tutto però ci induce a credere che Erice nostra non doveva a quei tempi e per la sua posizione e per la sua rocca essere di lieve importanza, se non come città frequente di popoli e di commerci, almeno come castello e fortezza.”

Ma se tutti i casali “riahl” e i “manzil” di cui erano cosparse le falde ericine sono poi svaniti nel tempo, sono rimaste invece, sostiene l’Adragna, numerose tracce nella toponomastica e nell’uso linguistico. A tal proposito, oltre a citare i toponimi di molti luoghi, l’Adragna elenca una serie interminabile di nomi di oggetti e usi di chiara origine arabeggiante, fra i quali il cuscusu di cui spiega le differenze con l’originale arabo. Mi piace evidenziare quanto scrive a proposito della <<mafàradda>> : vaso di terracotta verniciato all’interno con uno speciale smalto verde a forma di ampio tronco di cono poggiante sulla base minore che serve “per ‘ncucciari il cuscusu”.

Ricerche appropriate non sono state mai condotte sugli utensili della vita quotidiana, ma certamente la ricerca d’archivio potrebbe dare maggiore luce.

Occorre però nel contempo ricordare che questo cibo particolare viene citato in documenti dal quattrocento in poi per il semplice motivo che veniva usato anche in altri territori siciliani, ad opera di conventi e di monaci, documenti citati da studiosi importanti quali Henri Bresc, Marcel Aymard ed altri. I due famosi storici francesi Bresc ed Aymard, nel loro saggio “Nourritures et consommation en Sicile entre XIV et XVIII siècle “ raccontano che “encore au XVI siècle on trouve trace de bouillies (cuccia), ou, plus encore, de couscous: cuisinè aujourd’hui seulement autour  de Trapani, il y est considéré comme une importation de Tunisie. Mais la semoule et le couscous figurent régulièrement dans tou le tarifs municipaux de Palerme, et les religieuses du Monastere du Salvatore en mangent le jour de Noel 1694. Un plat de fete donc, de meme d’ailleurs, très long-temps, que le pates”. La citazione dell’importazione del couscous dalla Tunisia, fatta da Henri Bresc, non è amena in quanto l’emigrazione anomala dei trapanesi verso il nord Africa alla fine del secolo XIX, in un periodo di grande crisi economica e di sviluppo della colonia francese della Tunisia, fu notevole. Ma trattasi certamente di una seconda o terza importazione storica di questo cibo eccezionale. Una storia, quella del couscous, lunga ed infinita, ma affascinante.

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